sabato, Aprile 20, 2024
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La maestra, i camorristi e i bambini Rom

Barra, San Giovanni, Ponticelli: periferia est di Napoli

Un tempo zona industriale, oggi ter­ritorio senza alcuna nuova vocazione, in cui abita una popolazione più giova­ne della media cittadina, ma anche meno istruita e con un tasso di disoc­cupazione più elevato. Negli ultimi trent’anni l’area ha subito trasforma­zioni radicali: nuovi rioni di case po­polari, corpi estranei rispetto al tessu­to sociale storico, torri e palazzine ti­rate su con materiali scadenti che la mancanza di manutenzione ha reso in breve tempo fatiscenti e insalubri.

I piani di recupero urbano, gli annunci di nuove infrastrutture (a opera del pub­blico o del privato, ugualmente inconclu­denti), la riconversione delle fabbriche, le migliorie per l’edilizia, la lotta a una criminalità di fatto incontrastata, sono di­ventati presto stanchi rituali a cui non crede più nessuno.

Nel frattempo, come accade in altre periferie metropolitane, nei numerosi in­terstizi creati da un’urbanizzazione sre­golata si sono insediate comunità margi­nali, che il resto della città tiene accura­tamente lontano da sé.

Marisa Esposito lavora a Barra come dirigente in una scuola primaria che ospi­ta novecento alunni. È entrata nella scuo­la pubblica negli anni Ottanta, prima come insegnante in una scuola dell’infanzia a Ponticelli, poi in una scuola elementare a san Giorgio a Cre­mano, infine in un istituto alberghiero dove ha insegnato francese per otto anni.

«Ho cominciato a Ponticelli, in una scuola del Rione Santa Rosa – racconta – Eravamo insegnanti giovani, entusiaste, quasi tutte della zona. Rompemmo il si­stema delle sezioni e della maestra unica. I bambini erano divisi in gruppi e girava­no per i laboratori che funzionavano per tutto il giorno. Erano molto stimolati, an­che se venivano da rioni modesti. Le fa­miglie ci rispettavano, ci ascoltavano, e noi le rispettavamo.

Di questa esperienza decennale non è rimasto nulla: alcuni in­segnanti vinsero il concorso da dirigenti, altri furono trasfe­riti. La platea degli alunni non è cambia­ta, quel che è cam­biato, e me ne accorgo anche nella scuola che dirigo a Barra, sono le famiglie. Spesso alla cura si è so­stituito il “ben avere”, i bambini devono possedere tutto ma nessuno li ascolta; hanno genitori bambini ai quali le loro mamme prepara­no ancora la prima cola­zione, e nei casi più drammatici non rie­scono nemmeno ad alzarsi per accompa­gnarli a scuola».

Da vent’anni Marisa collabora con la Nea, un’associazione che opera nel cam­po della cooperazione internazionale e dello sviluppo umano. Un incontro che risale ai primi anni Novanta, durante la crisi del Kosovo, quando a Ponticelli in­crociano i loro destini tre diverse comu­nità: gli albanesi, i rom di origine jugo­slava e gli africani provenienti dall’Afri­ca occidentale, in particolare dalla Costa d’Avorio e dal Burkina Faso.

Si insedia­no tutti nei cosiddetti Bipia­ni, due com­plessi di container – posti uno di fronte all’altro sulla stessa strada – costruiti per accogliere gli sfollati del terremoto del 1980. Abitazioni fatte con pavimenti, tra­vi e soffitti in amianto, che i napoletani abbandonano appena ottenu­to un posto nelle nuove torri di edilizia popolare. An­che se alcuni, esclusi dalle assegnazioni, fanno ritorno mescolandosi con gli stra­nieri.

«La Caritas mi parlò delle condi­zioni disastrose di questi immigrati – rac­conta Marisa –, così raccolsi cibo e indu­menti e li portai con la mia auto nei Bi­piani. Organizzai una serie di pranzi con le co­munità e cercai di capire come si poteva aiutarli. Gli africani erano giova­ni, singo­li, con tanta voglia di socializza­re. Con loro cominciammo un corso di italiano. Gli albanesi invece erano fami­glie, più difficili da avvicinare, i loro fi­gli aveva­no imparato l’italiano seguendo la televi­sione in Albania».

I bambini rom e quelli albanesi vengo­no inseriti a scuola nel 57° circolo. Alla fine degli anni Novanta i minori stranieri iscritti nelle scuole elementari e medie di Ponticelli risultano il 2,6% del totale, la percentuale più alta degli iscritti in città. I rom però, dopo un percorso incompleto alle elementari, si fermano puntualmente alle medie, non sempre preparate per as­sicurarne l’inserimento rispettando la loro identità e la cultura di provenienza.

Negli anni successivi quasi tutti gli stranieri, soprattutto gli africani, lasciano i Bipiani. Ma la voce tra gli immigrati è girata e i nuovi arrivati vanno a rimpiaz­zare i partenti.

Nel frattempo ai rom della ex Jugosla­via si aggiungono quelli pro­venienti dal­le aree più povere della Ro­mania. Occu­pano interamente uno dei due villaggi di Bipiani, ma nel 2003 il comune li manda via per abbattere l’inte­ra struttura.

Sull’area pare che fosse pre­visto un com­plesso di appartamenti con servizi per la classe media, ma ancora oggi il terreno risulta abbandonato. Il “villag­gio” super­stite invece è sempre al suo posto, con i container cadenti e im­bottiti di amianto, e una popolazione ete­rogenea di albane­si, africani e, in minima parte, napoleta­ni.

I rom, dopo lo sgombero del 2003, si disperdono lungo via Argine. Sorgono così nel giro di qualche anno una decina di campi spontanei, infoltiti periodica­mente dalle ondate di rom sfrattati dalle altre periferie.

Circa mille persone, quasi la metà dei rom presenti in città, insediati sotto i ca­valcavia oppure a ridosso di discariche abusive, in baracche di legno prive di servizi igienici dove per riscaldarsi si bruciano materiali recuperati tra i rifiuti e, quel che è peggio, i pneumatici usati che i rom smaltiscono in cambio di pochi soldi, e poi la plastica che riveste il rame dei fili elettrici, che viene rivenduta a tre euro al chilo. Dai dintorni dei campi, di notte e di giorno, si sprigionano alte co­lonne di fumi malsani.

Con il tempo la presenza sempre meno discreta dei rom innesca la reazione di chi vive intorno. Nascono comitati di cit­tadini, vengono presentati esposti, inter­rogazioni e anche petizioni al sindaco da parte dei consiglieri della zona, mentre si segnalano isolati episodi di intolleranza, aggressioni e incendi. Le associazioni di quartiere provano a fare da cuscinetto tra la popolazione circostante, le istituzioni e i rom, ma le proposte di individuare strutture di accoglienza alternative falli­scono a causa di veti incrociati, lentezze burocratiche o scarsa funzionalità delle soluzioni.

Gli elementi che preparano l’esplosio­ne si accumulano giorno dopo giorno. La scintilla che scatena il pogrom di Ponti­celli è però la notizia che una giovane rom avrebbe tentato di rapire il figlio neonato di una donna che risiede in un complesso di case popolari.

Il 13 maggio 2008 si registra il primo attacco con le molotov nel campo rom di via Petri. Quel giorno è prevista anche una manifestazione indetta dai comitati civici, esasperati dall’inerzia dell’ammi­nistrazione.

Sul posto affluiscono le prime teleca­mere, qualcuno blocca il traffico mentre qualcun altro si stacca dalla folla che si va ingrossando e dà il via agli assalti in­cendiari. L’arrivo delle volanti non ferma i roghi, che continueranno per tutta la notte e, con sistematicità, nei giorni suc­cessivi, finché delle baracche non resterà più traccia.

I rom si danno alla fuga, dopo aver sti­pato in fretta sui tre ruote tutti i propri averi. Nelle stesse ore appaiono sui muri del quartiere dei manifesti dal titolo elo­quente: “Via gli accampamenti Rom da Ponticelli!”. Portano la firma del Pd lo­cale.

«Quel giorno ero a scuola – racconta Marisa –, gli operatori della Nea mi chia­marono: “Qui stanno bruciando tutto”. Mi precipitai e capimmo subito che c’era un disegno, non erano azioni spontanee. Cominciammo a fare il giro dei campi dicendo a tutti i rom di andarsene. In una baracca trovammo un gruppo di donne spaventate che pregavano…

Quella sera il comune reperì degli alloggi a Poggio­reale e a Pianura, dove molti rom vivono tuttora. La maggior parte di quelli che abitavano lì, circa seicento persone, fece­ro perdere le loro tracce. Alcuni oggi sono tornati. Solo nella mia scuola, per esempio, ci sono trentacinque bambini rom. Dove c’erano i campi non è sorto nulla, c’erano ipotesi di valorizzazione che non hanno avuto seguito. In questo caso, credo che la camorra sia stata usata da qualcun altro come braccio operativo. Altrimenti che problemi avrebbe la ca­morra con i rom? La camorra vuole gua­dagnare, punto e basta. I rom pagava­no anche per attaccare un filo abusivo…».

La scuola che adesso dirige, Marisa l’aveva conosciuta in veste di operatrice della Nea, avendo curato per anni la sco­larizzazione dei bambini rom. Ora è tor­nata come direttrice.

«Prima sulla que­stione dell’integrazio­ne non c’era molta apertura – dice –. Adesso si respira un’aria nuova, lo dico­no gli operatori. Le risorse sono poche e vanno ripartite per l’eccellenza ma anche per chi ha più bi­sogno. Il comune spende i soldi per man­dare questi bambini a scuola ma poi non interviene sul contesto in cui vivono. In questo modo, i nostri sforzi rischiano di restare vani».

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