venerdì, Aprile 26, 2024
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Il triangolo del lavoro

Ponticelli, Barra e San Giovanni, i tre vertici di quello che un tempo era il triangolo indu­striale napoletano

Non passa giorno senza che venga fuori qualche notizia sulla riqualifica­zione prossima ventura. Il porto, l’uni­versità, il palazzetto dello sport, certi giorni addirittura si parla del nuovo stadio. A chi ci vive resta una vita quo­tidiana da periferia sempre più lonta­na dal centro e, in quelli che la coltiva­no, la memoria di ciò che si è stati.

In quegli anni, le origini contadine, i confini degli antichi casali, si fondono rapidamente in un’unica identità indu­striale, un vissuto che accomuna migliaia di persone, un’epopea di lavoro duro e conflitti sociali ma anche di ottimismo, di occupazione diffusa, di relativo benes­sere. «Qui c’erano due cose che facevano scuola – racconta Antonio Silvestri, ope­raio in pensione –, il partito comunista e la chiesa. E poi le strutture orizzontali del sindacato».

Silvestri, una vita alla Ignis di via Ar­gine, descrive così quell’atmosfera: «La gente era aperta, disponibile. Si antepo­neva l’impegno pubblico alla famiglia. Si veniva presi, coinvolti, si usciva la matti­na e non si sapeva a che ora si tornava a casa. Accanto alle grandi industrie c’era­no le piccole aziende. Quando si minac­ciava un licenziamento o c’era da soste­nere un’occupazione, partivamo subito: sciopero, manifestazione… Ai tempi del colera facemmo lo sciopero alla rovescia. Uscimmo dalle fabbriche e andammo lungo via Argine a pulire i lagni che era­no diventati delle fogne a cielo aperto».

In quegli anni la Ignis diventa un punto di riferimento, forse perché fabbrica di giovani, portatori di valori nuovi. «Arri­vammo anche a millequattrocento addet­ti. A mensa c’erano ancora i tavoli sepa­rati per operai e impiegati, ma nel ’69 venne sancito l’inquadramento professio­nale unico, un fatto rivoluzionario. Io che ero quinto livello operaio dovevo essere capace di leggere un disegno, di portare avanti un sistema di macchine…».

Alla Ignis, ma anche altrove, si mette in di­scussione l’organizzazione del lavo­ro. «La catena di montaggio non ti per­metteva di migliorare. Entravi cretino e dopo trent’anni cretino eri, non avevi im­parato niente. Ci battemmo per farci as­segnare mansioni meno ripetitive. Per esempio, alle presse invece di premere semplice­mente un bottone, se cominciavi a mon­tare lo stampo, poi imparavi a re­golarlo. E alla fine ci siamo riusciti. Ab­biamo cambiato il mondo, abbiamo cam­biato le fabbriche… Quando siamo partiti, il novanta per cento degli operai avevano il terzo livello, alla fine quasi la metà erano diventati specializzati».

Anche Luciano Guarino, classe ’49, ha lavorato alla Ignis di via Argine per più di quarant’anni. Famiglia del centro sto­rico, padre ferroviere e madre impie­gata alla Manifattura Tabacchi, da ragaz­zo, ogni estate, faceva l’apprendista in botte­ga presso un orefice di piazza Carlo III.

Poi il trasferimento in una casa Iacp a Cavalleggeri d’Aosta, e un vicino impie­gato alla Ignis che gli confida il modo si­curo per farsi assumere: bisogna andare direttamente a Varese, anzi a Comerio, alla sede centrale dell’azienda; ci si met­te davanti ai cancelli e si intercettano i dirigenti che passano, magari con un po’ di fortuna il capo del personale: il posto è assicurato. In quegli anni il mercato degli elettrodomestici è in piena espansione.

Luciano ottiene il suo obiettivo appena in tempo per veder nascere le battaglie sindacali del ’69. «La Ignis è stata una delle prime fabbriche con la commissio­ne interna. C’era un’organizzazione sin­dacale di stampo maoista, attiva e nume­rosa. I neoassunti come me però non scioperavano, altrimenti rischiavamo il licenziamento immediato».

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