venerdì, Aprile 19, 2024
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Il lato oscuro della prevenzione

Beni confiscati: un problema da risolvere. 
Continua la nostra inchiesta.

 

Beni confiscati alla mafia. Primi sulla carta ma ultimi nei fatti. 

L’Italia è stato il primo paese ad applicare la confisca dei beni ai mafiosi come metodo ordinario di lotta alla criminalità organizzata. Patrimoni di milioni euro che potrebbero essere riconsegnati alla comunità per usi sociali che invece finiscono negli elenchi dei curatori fallimentari. Questa è la triste cronaca di aziende che prima di essere confiscate promettevano degli utili e che in pochi anni di amministrazione giudiziaria chiudono i battenti lasciando a casa tanti lavoratori che con la mafia non avevano nessun rapporto. Dipendenti il cui unico obiettivo era lo stipendio a fine mese. 
Un’inefficienza da parte dello stato che costa cara: scegliere la mafia sembra essere quasi più conveniente. Ad indurre in queste facili tentazioni una macchina i cui ingranaggi non funzionano come dovrebbero. 
Alla base di questa macchina c’è la legge Alfano del 2010 che va ad aggiornare quella che negli anni sessanta fu una normativa rivoluzionaria. Se con la legge Pio La Torre si introduce per la prima volta la misura di prevenzione di tipo patrimoniale, con la legge Alfano sopravviene il tentativo di regolamentare la fase più critica del procedimento di confisca. Il nodo cruciale è infatti la fase iniziale, cosiddetta “del sequestro”, la cui figura chiave è quella dell’amministratore giudiziario. Le buoni intenzioni di Alfano erano di qualificare questa figura istituendone un albo da cui il giudice incaricato (a capo della sezione misure preventive, ndr) avrebbe dovuto attingere al momento della nomina. Colui che deve gestire il bene in attesa della perizia che deciderà se tale patrimonio è di provenienza illecita – con la nuova normativa – non sarà più nominato a discrezione del giudice ma verrà scelto in base a criteri di merito e trasparenza. 
Intenti lodevoli se venissero applicati: eppure di questi albi a tre anni dalla legge non c’è traccia. Inoltre, all’interno della legge c’è un articolo che di fatto annulla la validità dell’albo: i soggetti non iscritti ai registri che abbiano svolto l’attività di amministratore giudiziario nei cinque anni precedenti all’entrata in vigore della legge, possono esercitare la professione. 
Appellandosi a questo articolo, anche gli amministratori che sono stati revocati dal loro incarico per mala condotta possono tranquillamente essere chiamati a gestire altri beni. È il caso di Salvatore Benanti, che dopo una prima revoca è al momento amministratore giudiziario di un altro patrimonio sequestrato. Preso atto che questa legge non è mai stata applicata ci siamo chiesti quale sia il vero ruolo di un amministratore giudiziario. 
Secondo quanto riportato dagli atti del convegno sul tema dell’Unione avvocati d’Italia della sezione distrettuale di Bari, “l’amministratore ha il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati, anche al fine di incrementarne, se possibile, la redditività (art 2- sexies). Il compito dell’amministrazione è dunque quello di evitare danneggiamenti e dispersioni della res in sequestro”. Un’efficiente gestione è auspicabile se si considera che il bene, essendo ancora in fase di sequestro, potrebbe essere restituito al prevenuto. L’amministratore giudiziario dipende di fatto dal giudice che lo nomina: sarebbe opportuno quindi, che compilasse delle relazioni periodiche sullo stato del bene. Ma queste relazioni, esistono? Con quanta frequenza vengono compilate? Un’ altra domanda che ci siamo posti è: con quali criteri si determina il compenso di questi amministratori e con quali specifiche questi amministratori nominano i loro delegati che di fatto collaborano alla gestione del bene? E di nuovo, con quali criteri si determina il compenso di questi ultimi? Ultima e più importante domanda: non esistendo un albo che preveda delle competenza precise, come si può garantire la buona amministrazione di un impresa che dovrebbe rimanere attivamente sul mercato? 
Domande lecite se teniamo conto dei dati. Le statistiche dimostrano che gli amministratori giudiziari non sono del tutto votati alla logica d’impresa. 
Dall’entrata in vigore nel 1982 della legge Rognoni- La torre al 30 giugno 2009, risultano essere state confiscate 1.185 aziende, di queste ne risultano 581, circa il 49% uscite dalla gestione dell’Agenzia del demanio per chiusura o fallimento (537), o per altre ipotesi di chiusura (44) come ad esempio la revoca della confisca. Questo significa che quasi la metà delle aziende, durante la fase dell’amministrazione giudiziaria hanno cessato l’attività senza riuscire nemmeno ad arrivare ad una formale destinazione. 
La Provenzano mozzarelle, che a Giardinello dava lavoro a circa 35 dipendenti, è una delle tante aziende fallite dopo essere state affidate allo Stato. Nel 2007, con il sequestro del patrimonio di Giuseppe Grigoli, anche l’impresa di Giuseppe Provenzano finisce in amministrazione giudiziaria. La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo nomina Nicola Ribolla, che a sua volta si avvale della competenza dei coordinatori Dott. Glorioso e Nicitra, ex consulente del Banco di Sicilia. Quando la gestione giudiziaria entra nella Provenzano Mozzarelle si trova immediatamente a fronteggiare una serie difficoltà economiche, tanto che entrerà in liquidazione dopo solo due mesi dal sequestro. Se nella prima fase viene messo a punto un formidabile piano economico di risanamento del debito che coinvolge 11 banche diverse, sono i quattro anni di gestione (dal 2009 al 2013) a determinare il fallimento dell’azienda. Giancarlo Galati e Salvo Lamantia, hanno lavorato nella Provenzano mozzarelle per dieci anni. Si potrebbe dire che l’hanno vista nascere, crescere e morire. Il 23 aprile del 2012 gli viene consegnata una lettera che comunica la sospensione dell’attività; in poco meno di un mese, rimangono a tutti gli effetti senza un lavoro. “La cosa più assurda è stata che dal gennaio 2012 non abbiamo più avuto buste paga – raccontano – non ci hanno dato nemmeno il cud. Ci siamo ritrovati costretti a dover compilare una dichiarazione dei redditi su base ipotetica. Non è servito a niente chiedere i documenti; abbiamo scoperto solo dopo il fallimento che l’addetto alla buste paga aveva smesso di lavorare a fine 2011 perché non veniva retribuito come gli spettava“. Secondo quanto ci viene detto, l’amministrazione giudiziaria aveva un’unica e sola pecca: non avere le competenze per restare sul mercato. Pare che in quattro anni di gestione l’interazione con il personale sia stata scarsa, i rapporti con i fornitori inadeguati, così come la manutenzione dello stabilimento. 
Un’incapacità – giustificata con la crisi economica – che di fatto ha portato al fallimento di un’azienda e al licenziamento di oltre 35 dipendenti. 

Questo è solo uno dei tanti casi di imprese che lo Stato ha condannato al fallimento. Tuttavia esistono eccezioni che confermano la regola. 
La storia della Calcestruzzi Ericina a Trapani è l’eccezione in questione. 
I proprietari erano i figli di Vincenzo Virga, imprenditore trapanese condannato per mafia. L’azienda, dopo la confisca è stata assegnata ad una cooperativa costituita dai dipendenti. La nuova gestione ne ha garantito una competitiva presenza sul mercato ed ha inoltre installato un impianto per lo smantellamento dei rifiuti netti edili. Alla mafia tutto questo non piaceva, ha cercato per ben due volte di distruggerla. Il sostegno decisivo alla cooperativa è arrivato dall’ex prefetto Fulvio Sodano. Peccato che come premio per il suo operato virtuoso sia stato trasferito e accusato di turbativa del libero mercato dall’ ex segretario agli Interni ora senatore Antonio D’Alì (Pdl). Quello stesso senatore imputato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, da poco a Bruxelles per rappresentare il Parlamento italiano in seno all’Assemblea parlamentare Euro Mediterranea. D’Alì è stato confermato nell’organismo parlamentare europeo dal presidente del Senato, nonché ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, che ha raccolto l’interrogazione parlamentare del Pdl. 

Tirando le somme di questo primo e ancora embrionale studio del problema, resta da chiedersi: chi vigila su questa ambigua figura dell’amministratore giudiziario? Il giudice delegato. Questi dovrebbe esercitare il controllo sulla gestione per conto del tribunale a cui deve riferire quando se ne presenta la necessità. La persona interessata, a Palermo ha un nome e un cognome: Silvana Saguto, presidente della Sezione delle misure prevenzione del tribunale. 
A lei abbiamo recentemente proposto un’ intervista . Inizialmente la Dottoressa Saguto aveva accolto la nostra richiesta. Dopo aver letto le domande che volevamo porle, ha cambiato idea. Poiché il lato oscuro della prevenzione sembra allargarsi a macchia d’olio, in questa sede le chiediamo di far luce insieme a noi su questo intricato sistema che sembra vanificare ogni sforzo di lotta contro la mafia. 

La redazione di Telejato

salvatore.ognibene

Nato a Livorno e cresciuto a Menfi, in Sicilia. Ho studiato Giurisprudenza a Bologna e scritto "L'eucaristia mafiosa - La voce dei preti" (ed. Navarra Editore).

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