lunedì, Aprile 29, 2024
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Dov’è finita la politica

La memoria storica, per chi comanda, è un oggetto molto pericolo­so. Per questo la riscri­vono, e per questo noi la difendiamo

A differenza di Palermo, le istituzioni a Catania non hanno nel loro imprin­ting un vero e proprio impegno antima­fia, almeno negli anni Ottanta.

Alla morte di Giuseppe Fava, quasi esattamente trent’anni fa, la situazione in­fatti era la seguente:

la magistratura non faceva antimafia di nessun genere; alcuni magistrati (Per­racchio) erano tout-court corrotti;

  • il prefetto (Abatelli) inaugurava i ne­gozi dei mafiosi (Santapaola);
  • il colonnello dei carabinieri (Licata) ospite di imprenditori collusi (Costan­zo);
  • la polizia non arrestava i mafiosi;
  • né la magistratura li con­dannava.

Polizia e magistratura erano invece du­rissime nei confronti della piccola malavi­ta: gli scassapagghiari fermati erano spesso piccchiati a sangue (ma a volte le botte toccavano anche a ragazzini del tut­to estra­nei); pene sempre severis­sime, “esemplari”; in istrano con­trasto cogli ar­tifizi giuridici usati per assolvere impu­tati più titolati (per l’imprenditore inequi­vocabilmente in rapporto coi mafios­i s’invocava lo “stato di neces­sità”).

Non migliore la situazione delle istitu­zioni “civili”, l’Università per esempio. Qui il cattedratico più noto, Giarrizzo, as­sicurava nelle sue storie che non c’è mafia a Catania. Mentre luminari minori, come Tino Vittorio, stampavano libri (La mafia di carta, Guaraldi,) in cui un improba­bile mafioso proclamavano che l’assassinio di Fava “non c’entra la mafia. Donne, gioco per quel che ne posso intuire”. Pubblicati, peraltro, ” con il contributo del Diparti­mento Studi Politici dell’Uni­versità“

Della stampa (La Sicilia di Ciancio, ora inquisito) è inutile parlare: principale pila­stro di tutto questo.

Certo, non è una bella immagine della buona società catanese quella che vien fuori dalla storia di quegli anni. Allora non aveva importanza; ma oggi che la “le­galità” ha preso piede si cerca disperata­mente di riscriverla, can­cellando cio che accadde davvero e me­scolando in un muc­chio indistinto chi so­stenne il sistema, chi la subì, chi se ne dissociò occasionalmen­te e chi sostenne una lot­ta lunga, difficile e coerente, per op­porsi ad esso.

L’antimafia, in certi momenti, fu pure di massa (pur se senza potere), coi bravi e coraggio­si studenti catanesi. Più spesso fu af­fidata a gruppi e a singoli: i Siciliani, Sici­liani giovani, l’Associazione i Sicilia­ni, Città insieme, Democrazia Proletaria e altri minori; e il giudice “Titta” Scidà e l’ingegner D’Urso e don Resca; e i Centi­neo e i Di Stefano, Teri, Cazzola. Nomi completa­mente espunti dalle me­morie cit­tadine. Persino – ciò che più ferisce – da quella di gruppi inizialmente del tutto estranei all’establishment, come Addiopiz­zo. Ma così va il mondo.

* * *

La storia, in una città come Catania (ma l’Italia è Catania, a questo punto) non ri­guarda affatto il passato. Riguarda i poteri e le prepotenze attuali, le vigliaccherie e le rimozione di oggi, il “chi comanda” e il “chi subisce” di ora. Riguarda, fra le altre cose, gli attuali poteri mafiosi.

Questo è il motivo per cui la lotta anti­mafia – non rituale, e non limitata alle in­vestigazioni – è così importante per la so­cietà. Ed è per questo che la chiamiamo “an­timafia sociale”.

E mentre quasi tutta la politica “ufficia­le”, quella dei dibattiti in tv, incide ormai pochissimo nella vita comune (gover­nata ahimè da ben altri poteri), quella dell’anti­mafia cam­bia davvero le cose, quand’è vincente: perchè colpisce chi co­manda davvero in una società come la nostra, in cui il rap­porto ma­fia-poteri è ormai così diffuso e compatto.

La mafia, in altre parole, è il fasci­smo dei no­stri giorni. E l’antima­fia è l’anti­fascismo che noi viviamo adesso.

Per noi dei Siciliani questa lotta va avanti ormai da oltre trent’anni. Certo, non è l’unica lotta; né siamo solo noi a farla, ci mancherebbe. Noi però siamo forse quelli che le danno maggiore impor­tanza, anche politica, e che cercano più di legarla – nel nostro piccolo – con tutte le altre lotte so­ciali.

Per questo insistiamo tanto sul “fare rete”. Nessuno vince mai da solo, neanche i migliori: al massimo può far finta di vin­cere, o usare una parziale vittoria per inse­rirsi alla meno peggio nell’attuale sistema.

Qua invece bisogna vincere davvero e completa­mente, eliminando del tutto la mafia (con tutto ciò che le sta attorno) da ogni e qualsiasi assetto di potere.

Vedete che la faccenda è difficile… Ma forse non è impossibile del tutto. Basta solo provarci veramente tutti insieme.

 

Un mese da Lampedusa

Volenterosi carnefici

Il primo Campo di Concentrazione tede­sco fu aperto a Dachau mercoledì 22 mar­zo 1933. “Abbiamo preso questa decisione – annunciò il capo della polizia Himmler – per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio”. Vi venivano rinchiusi, sen­za processo, mendicanti, vagabondi, zinga­ri, oppositori, omosessuali e altri “elementi asociali”, e poi persone considerate dalle autorità e da gran parte della popolazione non del tutto appartenentialla razza umana: ebrei, polacchi, russi, rom, slavi.

Il Campo funzionò regolarmente per circa tredici anni, nell’indifferenza delal popola­zione cir­costante. Venne chiuso domenica 29 aprile 1945 da unità della 42ma division­e di fanteria Usa. Esse provvidero nei giorni successivi a rastrella­re i pacifici abitanti di Dachau ed a condur­li sotto scorta armata all’interno del campo per rendersi conto di persona delle atrocità ivi commes­se.

* * *

Oggigiorno è molto difficile che in Ger­mania tornino delle leggi razziali e dei la­ger. Perché i tedeschi non hanno affatto ri­mosso ciò che avvenne in Germania negli anni Trenta e Quaranta. Si sono accettati colpevoli, hanno guardato in faccia l’orrore. Hanno istituito – e applicato – delle leggi per vietarne la ripetizione. Hanno introiettato profondamente nella loro cultura il mai più. Si sono comportati da uomini, pagan­done tutto il prezzo, non da bambini simpa­tici che non debbono rispondere mai di niente.

Gli italiani no. Dei coevi crimini italiani (i gas, i lager, le stesse leggi razzial­i), il ri­cordo è stato sempre accurata­mente rimosso (italiani brava gente), na­scosto sotto il tap­peto dell’allegra bonomia nazionale.

Le leg­gi contro il fascismo, im­poste dall’opinione estera, non sono mai sta­te ap­plicate: dei for­ti partiti fascisteg­gianti, espliciti come il Msi o impliciti come la Lega, hanno avuto peso politico e consenso.

Governi “di centrode­stra” – come da noi vengono pudicamente definiti – han­no ri­portato nella nostra vita politica pulsio­ni e comportamen­ti pratici (razzismo, leggi raz­ziali, campi di concen­tramento) che in Ger­mania non sa­rebbero mai stati ammessi.

Il risultato è che noi, popolo italiano, fra il 2002 e il 2013 abbiamo ammazzato 6707 esseri umani, “razzialmente inferiori”, col­pevoli di aver cercato di mescolarsi a noi privilegiati; e abbiamo rinchiuso i supersti­ti nei campi. Questo non ci verrà perdona­to.

Coloro che studieranno l’Italia fra vent’anni avranno un’opinione precisa del nostro po­polo: quella che noi oggi abbiamo dei paci­fici cittadini di Dachau.

Ha ucciso più esseri umani la Repubblica (questa repubblica, la “seconda”, non quel­la della Costituzione) di quanti ne abbia ucci­so il fascismo prima di Salò.

E questa è la nostra grande rimozione, su cui basiamo tutto. Non potremmo, diversa­mente, parla­re di grandi problemi e di “poli­tica” senza pro­fondamente vergognarcene, da futili e pue­rili chiacchiere di smemorati.

Un mese da Lampedusa: e chi ci pensa più?

* * *

Una cosa, in tutto ciò, riesce ancora a stu­pirmi. Nessun ufficiale italiano, per quanto io ne sappia (gli ultimi a mia cono­scenza furono gli elicotteristi che si rifiuta­rono di bombardare edifici abitati, diversi anni fa), si è esplicitamente rifiutato, in questi undici anni, di eseguire ordini mani­festamente contrari all’umanità e all’onore militare.

Di­versi episodi del genere si veri­ficarono in­vece sotto il fascismo: Salvatore Todaro, uf­ficiale sommergibilista,si rifiutò ad esem­pio di eseguire l’ordine di non sal­vare i nau­fraghi delle navi silurate; e non fu il solo.

La povera Italia di quei tempi, pur sot­to una dittatura, esprimeva anche dei mi­litari così. Per me, cresciuto in mezzo a loro, questo è motivo di rimpianto e – paragonand­o ai tempi attuali – di dolore.

 

Nel silenzio delle istituzioni

A sinistra, il professor Giuseppe D’Urso. A destra, il Presidente del tribunale minorile Giambattista Scidà. Nell’ostilità dell’ establishment catanese, istituzioni comprese, continuarono la lotta di Giuseppe Fava a fianco dei Siciliani e per questo oggi si cerca di rimuovere le loro immagini dalla storia ufficiale della città.

  

Promemoria

Per Cata­nia

Le componenti del quadro catanese e le relazioni che le connettono sono assai chiare, anche se l’enumerazione non può esserne breve.

Ci limitiamo a tentarne un abbozzo:

  • l’intera assenza, dall’informazione ca­tanese, di pluralismo;
  • la sostanziale omogeneità degli schiera­menti politici – divisi dall’occasione eletto­rale solo per il regolamento di confi­ni in­terni;
  • l’unisono tra il potere di disporre del­la notizia, il quale è oggetto di estrema con­centrazione, e il potere di gestione de­gli af­fari pubblici;
  • l’insussistenza delle condizioni di base necessarie perché, se l’agire amministrati­vo dia nell’illecito e la repres­sione non ri­sulti adeguata, altri uffici esterni alla circo­scrizione possano inquisi­re in effetti­va in­dipendenza i responsabili di quella iner­zia;
  • le difficoltà, comprovatamente gravissi­me, che ad accertamenti proceda­no altri soggetti, come il Parlamento, con sue spe­cifiche articolazioni, e come orga­ni cen­trali di alta amministrazione:
  • la probabilità che questi ultimi si volga­no, non appena richiesti di far luce, pro­prio contro chi l’abbia invocata;
  • l’ordinario mutismo, intorno ai casi di Catania, delle rappresentanze locali, sic­ché se voce si leva, in proposito, nelle grandi assemblee,è (salvo eccezioni con­fermanti la regola) voce di eletti in tut­t’altre regioni;
  • l’accurata espunzione, dai temi della campagna elettorale, di ogni riferimento a quei fatti e casi anche da parte di grup­pi che sanno di esporsi, tacendo, al delu­so di­stacco di molti elettori;
  • il quasi puntuale coinvolgimento del­l’informazione esterna, a diffusione, nel pertinace silenzio su vi­cende locali, per alta e vasta che ne sia la rilevanza;
  • e ancora la pretesa in­solente che non si ardisca parlare di mali dell’oggi se non come di mali affat­to pas­sati e dai quali l’attualità sia felice­mente immune.

* * *

Pur se molto manca, ancora, per poter dire che tutto “il catalogo è questo”, già ben evidente risulta la centralità, nella si­tuazione dei media locali, e della illimi­tata potenza che è loro, di manipola­re la co­scienza di un’antica e popolosa e insi­gne città (ombelico d’Italia, se si tiene conto della presa che i gruppi, dai quali è domi­nata, esercitano sulla politica nazio­nale); di manipolarla impedendole, se ciò si vo­glia, la percezione della real­tà.

Una popolazione urbana cui sia fatto que­sto trattamento rischia di scadere da colletti­vità cittadina a massa di meri abi­tanti, sem­pre meno attenta al corso degli affari ammi­nistrativi, e sempre meno inte­ressata ad ap­prenderne qualcosa: una mas­sa che è facile intrattenere,a sue spe­se, in ludici diversivi dall’impegno civile.

Un tale stato di cose contiene in sé dina­mismi sinistri. Può spianare la strada a con­dotte anomale, in questo o in quel cam­po, di esercenti pubbliche funzioni, con pregiu­dizio anche profondo degli interessi collet­tivi, e determinare, per conse­guenza, un’ancora più forte bi­sogno di censura. Ad un certo punto della sua avanzata, il pro­cesso può rende­re troppo rischioso il vo­lerlo contrastare, scriven­done per tutti.

Assai giova, perciò, che uomini di buo­na volontà agiscano ora, senza ritardo, an­che se con mezzi di estrema esiguità: con null’altro che un foglio, appena in grado di raggiunge­re qualche migliaio di lettori. Giova as­sai, sì, che fatti e temi im­portanti vengano integrati al campo del conoscibil­e: sia per i mutamenti che ciò ba­sta ad intro­durre nella coscienza pub­blica, fornen­dole materia di giudizio, sia per il conto che di una nuova e libera voce si dovrà te­mere da chi gestisce pub­blici uffici.

Quest’ultimo risultato non sarà meno im­portante del primo, per il fine che l’iniziati­va deve assegnarsi: non già del mero de­nunciare malfatti – quasi auspicand­o, per il gusto di farne denuncia, che malfat­ti ci sia­no – o del sollevare scan­dali, ma di contri­buire a che materia di scandalo non sorga, o sorga sempre meno.

* * *

Non c’è, al presente, modo migliore di servire Catania; e questo, appunto, si vuol fare, serenamente e senz’odio e sen­z’ira, anche se con la consapevolezza – piena – che ira e odio possono rispondere, ancora una volta, al tentativo di ser­virla.

Il controllo del sapere pubblico, come esercitato tra l’Etna e il mare, è un troppo grande privilegio perché ci si rassegni, fa­cilmente, a vederlo diminuito.

(Giambattista Scidà – “Controvento”, giugno 2002)

 

Catania

Io, uno “sbirro antimafia”

da facebook

Ho lavorato a Catania quasi 10 anni e per 10 anni nel mio cervello e quello dei miei colleghi scorrevano i nomi delle famiglie mafiose e dei loro “carusi”, cioè dei picciotti che ne facevano parte. A ogni nome di per­sona veniva associato il quartiere a cui apparteneva. Ed allora era un sus­seguirsi di nomi di famiglie mafio­se, clan e pregiu­dicati che ne face­vano parte, come per esempio:

Santapaola e i suoi figli Vincenzo, Francesco e Cosima; i Piacenti detti “i Sceusa”; Sciuto; Aldo Ercolano; Di Mauro detti “Puntina”; Laudani detti “Mussu di Ficurinia”; Mazzeo detti “i Carcagnusi”; Pillera, detto “Turi cachiti”; Corrado Favara; Nuc­cio Ieni; Sciuto; A Savasta; I Cursoti; Stimoli; Cap­pello Salvatore; Marcello D’Agata; Maurizio Avola; Alleruzzo; Tuccio Salvatore, detto “Turi di lova”; Turi Tigna; Claudio Samperi; Aldo Ercola­no; Pulvi­renti Giuseppe “u Malpassotu”; Claudio Samperi; Calogero Campanella detto “Carletto”; Natale Di Raimondo; Alfio Fichera; Sebastiano Sciuto Nuc­cio “u iacitanu”; Giuseppe Ferlito; Car­melo Gran­cagnolo; Ferrera detti “i Cavadduzzu”; Giacomo Ieni; Francesco Mangion “Ciuzzu u fir­raru”; Piero Puglisi; Pino Orazio; Rannesi Girola­mo ecc.ecc.

* * *

Dopo tanti anni comincio a dimen­ticare i nomi di tutti, anzi spero di non aver fatto qualche erro­re.

Ricordo che avevo si e no, 15 anni quando ho cominciato a frequentare la Questura di Catania, dove lavora­va mio zio. Già da allora avevo comin­ciato a sentir nominare molti dei cognomi e delle bande che ho citato prima. Mio zio diceva che quelle per­sone comandavano la città. Io pen­savo che a comandarla fossero le istituzioni, Sin­daco, Prefetto, Que­store, Comandante dei Cara­binieri, della Finanza, la Magistratura. E no!. Mio zio mi diceva che la città la co­mandava la mafia, i politici legati alla mafia e i Cavalieri del lavoro.

E dopo tanti anni, quando arruola­to in Polizia fui trasferito a Catania, i nomi che ricorrevano nei nostri Uffi­ci, oltre quelli dei predetti mafiosi, erano quelli dei famosi Cavalieri del lavoro Ren­do, Co­stanzo, Parasaliti, Graci. Min­chia, da quando ero adolescente, non era cam­biato nulla.

Ma si parlava tantissimo anche di una foto. Una foto che avevano visto in pochi. Una foto innomi­nabile. Tan­to che, a noi giovani, ci sembrava una favola nata dentro gli Uffici della Squadra Mobile, raccon­tata da qual­che vecchio Maresciallo. Ma perché si parlava tanto di quella foto?

Forse perché si vedeva il volto del famigerato Nitto Santapaola che inaugurava la PAM CAR, un grande autosalone che vendeva auto di una nota marca di auto francese? No, non era lui l’innomi­nabile, erano mol­ti di più, effigiati in quel taglio del na­stro. Nel 1981, l’anno dell’inaugura­zione, San­tapaola invito le massime autorità cit­tadine. Ed in­fatti accanto a lui si vedevano il Pre­fetto Abatelli e il Questore Conigliaro. Min­chia, wow, minchia.

Cazzo, da allora sono passati 30 anni e ancora devo sentire che la mia città è in mano alle solite bande di mafiosi di merda. I boss storici sono in galera ed i figli hanno preso il loro posto. E quan­do arresteranno i figli, il loro posto verrà preso dai fi­gli dei figli e poi dai figli dei figli dei fi­gli. Insomm­a sembra che arresti non ce ne sono mai stati, sembra di non aver fatto nulla di nulla. Loro vivi e ricchi. E i morti? Per chi hanno sacri­ficato la loro vita i valorosi rappre­sentanti delle Istituzio­ni se questi sono sempre i padroni della mia cit­tà, della Sicilia? Tutto cambia perché nulla cambia.

* * *

Forse saremmo condannati a sen­tire questi nomi ancora per i prossimi 100 anni, fino a quan­do lo Stato Centrale ( e non un pugno di volente­rosi servitori dello Stato), non deci­da di permetter­ci di debellare la ma­fia, usando il pugno duro e non di plastica. Che rabbia, se penso a quante notti e giorni buttati al lavoro, all’acqua e al vento, per poter arre­stare questa gente, mentre i nostri fi­gli crescevano senza che ce ne accorg­essimo.

I nostri figli sono grandi, io e tanti miei colleghi quasi alle soglie della pensione e ancora nella mia città sento parlare di Santapaola. Dru min­chia di Santapaola, de so figghi e di tutti dautri pezzi ri medda ca sam­muccanu a nostra città. Da non cre­derci. Un vero incubo. Una vera di­sfatta. Che tristezza. Che rabbia.

Gianni sbirro antimafia

 

Promemoria

Dieci obiettivi dell’antimafia sociale

  • Abolire il segreto bancario;
  • Confiscare tutti i beni mafiosi o frut­to di corruzione o grande evasione fiscale;
  • Assegnarli a cooperative di giovani lavora­tori; aiuti per chi le sostiene;
  • Anagrafe dei beni confiscati;
  • San­zionare le delocalizzazioni, l’abu­so di precariato e il mancato ri­spetto de­gli ac­cordi di lavoro
  • Separazione fra capitale finanziario e indu­striale; tetto alle partecipazioni nell’edi­toria; Tobin tax;
  • Gestione pubblica dei servizi essen­ziali (scuola, univer­sità, difesa, ac­qua, energia, tecnologie, cre­dito interna­zionale);
  • Progetto nazionale di messa in sicu­rezza del territorio, come volano econom­ico specie al Sud; divieto d’altre cementificazioni;
  • Controllo del territorio nelle zone ad alta in­tensità mafiosa.
  • Applicare l’art.41 della Costitu­zione.

Costituzione della Repubblica Italia­na, articolo 41:

“L’iniziativa economica privata è libe­ra. Non può svolgersi in contrasto con l’utili­tà sociale o in modo da recar­e dan­no alla sicurezza, alla li­bertà, alla digni­tà umana. La legge determi­na i pro­grammi e i con­trolli opportuni per­ché l’attività economi­ca pubblica e pri­vata possa essere indirizz­ata e coordi­nata a fini so­ciali”.

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