domenica, Aprile 28, 2024
-mensile-Cultura

“Un figlio degli anni Sessanta”

Ciao Licchia,

ho appena ricevuto la notizia che hai preso commiato dalla fatica. Lo avevi già fatto, da giorni, ma c’è sempre questa maledetta macchina biologica che pro­prio non riesce a capire il valore dello scivolare via al momento giusto e trattie­ne quel che resta di noi anche quando ab­biamo scritto la parola fine sulle bozze del nostro ultimo libro.

Ho avuto la possibilità, e la fortuna, di salutarti a settembre. Ho un ricordo niti­do di te mentre confondevamo parole e vino guardando il mare. Lo terrò caro, quel saluto. Terrò cari i tuoi libri, le tue lettere, il ricordo di sgroppate in macchi­na e fiumi di idee che diventavano carta e inchiostro. Eravamo lì, a cercare un caffè decente e a pensare a libri futuri. Poi, due giorni dopo, a ridere delle nostre disgraziate vite precarie e miserabili con Sebastiano e Riccardo. Cialtroni e cir­censi, noi. Come nostro solito. Mica si può avere la tua eleganza, Salvatò. Non ci si nasce eleganti, ci si diventa. E’ roba che si studia vivendo, come hai fatto tu. Noi abbiamo studiato altro, perdendo di vista la leggerezza.

Rimangono in questo momento i tuoi libri (e quelli formidabili che hai scritto come Il Mio Postino), i cannoli di Dattil­o, il cous cous di Clara, le strade deser­te di una Sicilia da attraversare, il bab­biare per il solo gusto di babbiare. Tutto questo rimane. Dentro chi ti ha conosciu­to.

Non voglio scrivere l’ennesimo cocco­drillo. Una volta ne parlammo della no­bile arte del racconto dei morti. Ci ri­demmo sopra. Non mi interessa. Ti scri­vo e basta, e sono anche un po’ incazzato con te perché quei tre giorni di solitudine aspettando che ci si accorgesse che stavi male talmente tanto da morire te li potevi risparmiare. E quindi sono qui. Ho nella borsa il pizzino che ho scritto per te. E’ rimasto lì da quando me l’hai dato. Sono seduto dove ci siamo salutati. La stessa panchina, quasi lo stesso sole. Riccardo mi ha chiesto di scrivere il pezzo. Lo sta­vo già facendo. Ripeto. Non un cocco­drillo, ma queste parole che ti ho detto mille volte. In silenzio.

Sei stato l’ultimo editore, pezzo di mondo freack e impegno civile. Figlio degli anni ’60, ma senza quella patina ideologica che ci ha rotto a tutti abbon­dantemente i coglioni. Hai amato i libri che hai pubblicato come figli, la carta su cui li hai stampati come pelle di un’ amante, l’inchiostro come sangue che è possibile versare quando ne vale la pena.

Spero che lì, dovunque tu sia, suonino Yo Mama di zio Frank e ci sia dell’erba buona da fumare.

Ci si vede, Salvatò

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