domenica, Aprile 28, 2024
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Scidà, Salvi: a chi fanno paura?

Catania. “Questa Procura non s’ha da fare!”. Don Rodrigo, don Abbondio, l’Azzeccagarbugli, l’Inno­minato, e – sullo sfondo – i bravi

La saggezza (e l’eleganza) spesso e da decenni non abita più nei Palazzi di giustizia. A Catania, men che meno. Il giudice Giambattista Scidà saggiamen­te sosteneva: “Poiché ho scelto di fare il magistrato, devo dare ogni giorno l’esempio di moralità e di coerenza alla mia comunità”. E citando Piero Cala­mandrei ricordava uno dei principi del­la legalità costituzionale: “La giustizia deve essere e apparire un potere sepa­rato dagli altri due, poiché ha il compi­to di controllarli entrambi”.

Ecco, cito Titta Scidà, ma penso alla storia di Giovanni Salvi e della corsa (ria­perta?) al vertice della Procura della Re­pubblica di Catania. La questione, un po’ grottescamente, è nuovamente nelle mani del Csm e in quelle del Consiglio di Stato: Giovanni Tinebra e Giuseppe Gen­naro hanno fatto ricorso, rivendicato il maggio­re diritto di essere procuratori e ri­messo in discussione la scelta di 12 mesi fa.

Vedremo l’esito finale, detto che quel Palazzo non ha certamente bisogno di cor­si e ricorsi, di liti e pretese dopo decenni di rimozioni, scandali e teste sotto la sab­bia. Ma secondo me, Scidà aveva ragione e quando usava quelle parole descriveva e fustigava, per contrasto, la tradizionale “non estraneità” del potere giudiziario alla politica e all’economia deviate a Catania. Dei tre concorrenti, Salvi è l’unico “estra­neo” a Catania.

E mi piace immaginare che, indiscusso curriculum a parte, la maggioranza del Csm un anno esatto fa, poco prima che Scidà morisse non senza aver invocato una scelta “estranea” a Catania per quella poltrona, abbia fatto la scelta di Salvi an­che in ossequio di quello esprit de loi: mettere al vertice dell’ufficio della pubbli­ca accusa (di cui Catania ha grande biso­gno, dopo decenni di distrazioni e inazio­ne) un uomo che è – e appare – del tutto “estraneo” al contesto.

Un magistrato vicino alla giustizia e lontano dalle relazioni localistiche. “Nec prope, nec procul”, dicevano i latini e si riferivano alla necessità di stare alla giusta distanza dal fuoco. Giovanni Salvi, in fon­do, è questo: né vicino a Catania, né lon­tano dalla fedeltà alla legge. Ce n’era, ce n’è e ce ne sarà ancora tanto bisogno.

Per questo, chi pensa – come me – che un procuratore “forestiero” come Salvi sia una garanzia in più di indipendenza e au­tonomia per il diritto a Catania, spera che – nonostante i ricorsi – Salvi debba rima­nere al suo posto. Nel suo curriculum, non troverete mai neanche una traccia di pre­sunte relazioni pericolose con potenti, fac­cendieri, poten­ti. L’unico – nella rosa – a poterlo fare.

Ma la scelta era ed è giusta per una ra­gione anche professionale. Nel loro ricor­so, accolto, Tinebra e Gennaro esibiscono i loro curriculum ed eccepiscono a Salvi una “minore esperienza” in materia di ma­fia. Insomma: Salvi è inesperto di indagi­ni sulla mafia. Ma è così?

No, non è così. Basta digitare Wikipe­dia, per rendersene conto.

Siccome, da ex-cronista di giudiziaria anche a Roma, ne sono stato testimone di­retto, ecco un breve riepilogo dei processi curati da Salvi (certo molto lontano da Catania). Nel 1987,  pm del processo sulla morte di Roberto Calvi: fu Salvi a far ria­prire il processo dopo un’archiviazione per suicidio decisa dalla Cassazione.

Fu la mafia e non i suoi debiti a suicida­re il banchiere dell’Ambrosiano sotto il ponte dei Black Frairs di Londra, fu Salvi a chiedere e ottenere l’arresto di Pippo Calò (il banchiere dei corleonesi) e di Fla­vio Carboni (faccendiere della P2) per quel delitto politico-economico-mafioso.

Fu Salvi, insieme alla procura di Paler­mo, a raccogliere le testimonianze del boss Francesco Di Carlo che ricostruì la morte di Calvi e che mise a fuoco il ruolo di Michele Sindona in quel contesto di alta mafia. E quella ricostruzione è so­pravvissuta al terzo grado di giudizio. E fu il pm romano Giovanni Salvi che, inda­gando sugli affari di Pippo Calò, scoprì gli scenari criminali dello scandalo Ital­casse, uno dei primi nel suo genere sco­perto in Italia: Salvi scoprì che c’erano fondi di Pippo Calò (dunque della mafia) e del suo socio romano Domenico Bal­ducci negli affari dell’Italcasse: Calò e Balducci avrebbero garantito, attraverso una loro società, le spericolate operazioni bancarie di imprenditori come il costrutto­re Caltagirone e la Sir di Rovelli.

E fu infine il pm Salvi a scoprire che la romanissima banda della Magliana aveva interessi in appalti proprio a due passi da Catania, nel porto di Siracusa. Salvi è sta­to il pm in molti grandi processi sui miste­ri d’Italia: il memoriale Moro e il delitto Pecorelli ma anche tutti i processi sul ter­rorismo nero: i Nar, Avanguardia naziona­le, Ordine nuovo. E spesso, in quelle tra­me di terrore neofascista, sono affiorate piccole figure di camorristi, mafiosi, fac­cendieri e banchieri.

Ecco, Salvi è un magistrato competente in materia di mafia, molto competente. E’ stato anche pm nell’aula del processo sul­la strage di Ustica ed è stato il primo pub­blico accusatore del mondo a ottenere  una condanna sull’operazione Condor. Ri­cordate? Il regime di Pinochet sopprimeva i suoi oppositori precipitandoli da aerei, desaparecidos.  Salvi ha ottenuto la con­danna di Manuel Contreras Sepulveda, capo degli 007 di Pinochet, per quei delit­ti.

Uno che di Catania non sa nulla potreb­be obiettare: perché questa difesa di Salvi? Perché “nec prope, nec procul”.  Dunque, al di là di carte bollate e sentenze amministrative, la domanda va fatta ai ca­tanesi: ma voi affidereste la pubblica ac­cusa della vostra città a un magistrato così gentiluomo e così “incompetente” in ma­teria di mafia?

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