giovedì, Aprile 25, 2024
Come fosse oggi

26 settembre, gli anarchici della Baracca e Mauro Rostagno, morti senza giustizia

26 settembre 1970, la storia degli anarchici della Baracca

Quella dei cinque anarchici della Baracca è oggi una storia forse quasi dimenticata. Se ne accenna qua e là quando si parla della stagione delle stragi e non si può fare a meno di parlarne in coda ai moti di Reggio Calabria, quando tra il 1970 e il 1971 la città esplose contro la decisione di fare di Catanzaro il capoluogo di regione. L’epilogo della vicenda di quei giovani anarchici si consumò il 26 settembre 1970: Nixon era in visita a Roma, si annunciavano manifestazioni di protesta e i cinque ragazzi stavano viaggiando in automobile alla volta della capitale.

Ma non andavano ai cortei contro il presidente statunitense: in base a quanto dissero prima di partire, avevano con loro un dossier che dimostrava le responsabilità degli estremistri di destra e della criminalità organizzata nell’attentato al Treno del Sole Palermo-Torino avvenuto poche settimane prima, il 22 luglio, che fece sei vittime e 54 feriti. Ma gli anarchici della Baracca a Roma non ci arrivarono: mancavano pochi minuti alle undici e mezza di sera che, a meno di sessanta chilometri dalla meta, la Mini Morris su cui erano venne coinvolta in un incidente. In tre morirono sul colpo, un quarto passeggero non sopravvisse nemmeno il tempo di arrivare al pronto soccorso mentre l’agonia dell’unica ragazza presente durò ventun giorni.

Il libro Cinque anarchici del Sud. Una storia negata di Fabio Cuzzola ricostruisce la storia di questi giovani, che si chiamavano Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, e lo fa con una delicatezza e una passione tangibili in ciascuna delle pagine del libro. Parte da un’esigenza, questo lavoro, resa efficacemente nella prefazione da Tonino Perna, che l’ambiente dell’anarchismo di quegli anni lo conosce bene perché ne faceva parte:

Si sono scritti tanti volumi sulla città dei “boia chi molla”, senza capire fino in fondo quella che è stata l’ultima grande lotta popolare del nostro Mezzogiorno, la prima lotta “etnica” di un ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli ultimi trent’anni del XX secolo. I giovani anarchici reggini stavano dentro quella contraddizione, tra le ragioni popolari della rivolta e la sua strumentalizzazione, tra rivoluzione e reazione, tra bisogno popolare di protagonismo e trame che ne hanno determinato la cifra. Stavano tra la gente cercando di capire, di interpretare, di portare il loro contributo. Avevano profeticamente capito che eravamo di fronte a quello che in geometria analitica si chiama “punto di flesso”, una fase di passaggio delicata, confusa e contraddittoria.

Il racconto di Cuzzola ricostruisce il percorso che i ragazzi dalla Baracca seguono per giungere alla comprensione di cui parla Perna: narra, Cuzzola, delle famiglie d’origine e dalla loro infanzia, della volontà di rompere gli schemi della società calabrese, dell’amore per l’arte che diventa pratica politica. E della pratica politica a sua volta declinata nei termini del libertarismo e della non violenza, che si avvicina ai movimenti della sinistra extraparlamentare ma che vuole preservare una propria connotazione. Poi vengono i viaggi in giro per l’Europa, l’incontro con operai o minatori belgi, borghesi tedeschi, compagni francesi. E di come sia poi arrivata l’ondata della caccia al mostro anarchico dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, la morte di Pino Pinelli e l’incriminazione di Pietro Valpreda.

Anche i ragazzi calabresi vengono lambiti dalle conseguenze della pista anarchica e alcuni di loro finiscono in carcere a Roma. Quando escono e tornano a casa, le madri vorrebbero che si allontanassero dalla militanza attiva con l’aria che tira. Un’aria brutta, bruttissima. Ma giungono poi le rivolte, ampie e popolari, che via via finiscono per essere strumentalizzate da una sola parte e su cui si addensano le ombre dell”ndrangheta. Così la Calabria conosce un vero e proprio stato d’assedio durante il quale si consuma la strage di Gioia Tauro. La strada tracciata dagli anarchici del nord con piazza Fontana e la loro controinchiesta “La strage di Stato” è un esempio di come muoversi, come reagire: iniziano a fare domande, i cinque anarchici, raccogliere informazioni, consultare documenti. Fino a quando annunciano: abbiamo finito, portiamo tutto a Roma all’avvocato della Fai. Ma sulla loro strada si para il camion dei fratelli Aniello, legati – si disse – a Junio Valerio Borghese.

Cinque anarchici del Sud. Una storia negata di Fabio Cuzzola (I tempi della storia, Città del Sole Edizioni, 2001) – 126 pagine – € 10,00 – ISBN 9788873510000. Il volume è passato a una modalità copyleft ed è diventato liberamente scaricabile in formato pdf (204MB) cliccando qui.

26 settembre 1988, Mauro Rostagno e il giornalismo di denuncia da zittire

Certe ingiustizie hanno bisogno di poche parole. E quelle poche parole sono esplicite sul sito Ciao Mauro, creato per ricordare Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi di Valderice, in provincia di Trapani, il 26 settembre 1988:

Venticinque lunghi anni trascorsi sapendo che Mauro è una vittima di mafia, ma anche senza conoscere gli assassini e i loro mandanti; senza una sentenza pronunciata da un tribunale. Ventidue anni e quattro mesi sono stati necessari perché iniziasse un processo, tardivo, ancorché necessario.
E, infine, dopo 32 mesi di udienze, la conclusione del processo non sembra a portata di mano. Questa contabilità del tempo ci lascia sempre perplessi e sgomenti; spesso ci chiediamo se la nostra ricerca di verità e giustizia ha ancora un senso.

Una contabilità, quella di cui si parla, che inizia a poche centinaia di metri della comunità che Rostagno aveva contribuito a fondare, la Saman, e che passa attraverso colpi di una pistola calibro 38 e di un fucile a pompa che esplode nell’agguato sparati all’interno della Fiat Duna DS bianca del giornalista, 46 anni al momento in cui morì.

Studente di sociologia a Trento ai tempi della contestazione del ’68, militante di Lotta Continua negli anni Settanta, candidato per Democrazia Proletaria alle politiche del 1976 e animatore culturale del Macondo, nel 1981 Rostagno torna in Sicilia (era già stato a Palermo in precedenza come ricercatore universitario) e fonda la comunità di recupero Saman. Ma allora si mette anche a denunciare gli affari della mafia dalle frequenze dell’emittente Radio Tele Cine raccontando le gesta di uomini d’onore come Nitto Santapaola, Vito Lipari e Mariano Agate. Ma poi c’è anche l’inchiesta che lo porta a interessarsi del Centro Scorpione, base Gladio del trapanese, quella che condurrà negli anni a venire veso i traffici con la Somalia e verso gli omicidi del maresciallo Vincenzo Li Causi (12 novembre 1993) e dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (20 marzo 1994).

Insomma, quella di Mauro Rostagno, qui solo accennata, si presenta per quello che è: una vicenda complessa, complessissima, per la quale oggi c’è di certo solo un elemento, zittire un giornalista e attivista scomodo. In attesa che, dal punto di vista processuale o almeno da quello storico-politico, si deliniino i contorni di quell’esecuzione. E questo continua ad avere un senso.

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