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Quella sera che l’Italia perse Berlinguer

Trent’anni fa, a Padova, una “normale” campa­gna elettorale si tra­sformò improvvisamen­te in dramma

Padova, 7 giugno 1984. Faceva freddo quella sera, per essere giugno. Piazza del­la Frutta era spazzata via da forti folate di vento, mentre le nuvole faceva­no presagi­re pioggia. Ciononostante, migliaia di per­sone erano lì da ore sotto a un palco dove troneggiava un’immen­sa falce e martello, in attesa che un si­gnore in giacca e cravat­ta prendesse la parola. Sarebbe stata l’ulti­ma volta, ma nessuno poteva immaginar­lo.

Enrico Berlinguer iniziò a parlare alle 21:30, sarebbe sceso da quel palco quasi un’ora dopo. Era stanco, provato in volto, veniva da un tour massacrante per le ele­zioni Europee e in ogni piazza si batteva contro la deriva autoritaria e anti-demo­cratica del governo di Bettino Craxi, il se­condo rottamatore della storia d’Italia (il primo era stato Mussolini).

Berlinguer quella sera parlò per 40 mi­nuti, attaccando i partiti che avevano mal­governato e stavano malgovernando il Belpaese, evocando l’Italia “onesta, pulita e democratica, non quella della P2” che il suo partito voleva portare in Europa. All’improvviso la prima pausa, il primo sintomo del male che se lo sarebbe porta­to via. Le immagini di quegli ultimi minu­ti sono laceranti e danno, da sole, la cifra di che uomo realmente fosse Enrico Ber­linguer.

«Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogan­do». Si spense così, davanti alla sua gente, con un messaggio di speranza e fiducia.

Lui, così schivo e riservato, per un beffar­do scherzo del destino finì con l’offrire all’Italia e al mondo intero la morte più terribilmente pubblica che ci potesse esse­re. Qualcuno ha scritto che è morto sul campo di battaglia, altri sul posto di lavo­ro: quel che è certo è che Enrico Berlin­guer si spese fino all’ultimo minuto della sua vita per un ideale. Era, per usare le parole di Max Weber, “il politico con la vocazione, cioè il vero Politico, quello che serve una causa”.

Il Partito Comunista Italiano, sotto di lui, toccò percentuali di consenso mai rag­giunte da nessun altro partito comunista d’Occidente: con Berlinguer, un italiano su tre votava comunista ed era convinto che la politica fosse una cosa bella. Ro­berto Benigni scrisse una volta: “Non mi piace la politica, mi piace Berlinguer”, dando voce a un sentimento collettivo che culminò in quella manifestazione per la pace al Pincio nel giugno ’83 quando lo prese in braccio, “per ricambiare tutte quelle volte che mi sono sentito sollevato da lui”.

Cittadino del mondo

Berlinguer era sardo ma si sentiva ita­liano (come scrisse nell’immediato dopo­guerra lui stesso a un compagno), era co­munista ma difese con le unghie e con i denti la democrazia (e per questo i sovie­tici tentarono di farlo fuori nel 1973 a So­fia), credeva nell’Europa dei popoli e dei lavoratori ma si sentiva cittadino del mon­do. Era nato a Sassari il 25 maggio 1922: oggi avrebbe avuto 92 anni. È morto inve­ce a 62, nel pieno delle forze, stroncato da un ictus, dopo 90 ore di agonia.

Protagonista di quel dramma, che scon­volse l’Italia intera, fu, suo malgrado, un signore d’altri tempi che avrebbe conqui­stato il cuore degli Italiani: era stato parti­giano, di fede socialista, ed era anche in quel momento il Presidente della Repub­blica. Il caso volle che Sandro Pertini si trovasse a Padova proprio lo stesso giorno di Berlinguer e non appena venne ricove­rato, si fece subito dare una camera vicino alla sua in ospedale, vegliando sul leader comunista fino alla morte.

Alle 12:45 dell’11 giugno 1984, in un italiano stentato che tradiva l’emozione per quella perdita che sconvolse le vite di milioni di italiani veniva dato l’annuncio che “L’onorevole Berlinguer è mancato di vivere.”

“Lo porto via come un figlio”

Quando lo riportò a Roma con l’aereo presidenziale, Pertini dichiarò alla stam­pa: «Lo porto via come un amico frater­no, come un figlio, come un compagno di lotta». E per tutti fu come se fosse manca­to un caro amico, un fratello, un padre, un pezzo di se stessi: da Padova all’aeroporto di Venezia, lungo tutto il tragitto del fere­tro, oltre 40 km, cittadini di ogni età e orientamento politico affollarono i bordi della strada per recargli l’ultimo saluto, fermi, immobili, completamente bagnati dalla pioggia che cadeva incessante, come se anche la natura si ribellasse alla trage­dia. In effetti, come scrisse Roberto Beni­gni, «morire a 62 anni è come nascere a 24 mesi: uno non ci crede».

A Roma, in quel caldo 13 giugno, ven­nero da tutta Italia e da tutto il mondo a rendergli omaggio: capi di stato e di go­verno, leader di maggioranza e opposizio­ne, ma soprattutto gente qualun­que. Alla fine furono in due milioni a par­tecipare ai più grandi funerali della storia d’Italia.

A rendere omaggio alla salma del leader del partito contro cui si era scritta la storia della Prima Repubblica ci andò anche il nemico per eccellenza, quel Gior­gio Almi­rante capo dei fascisti del MSI, a cui Enri­co non rivolgeva nemmeno la pa­rola, per­ché, come disse in una tribuna politica del ’72, «Io coi fascisti non par­lo». Eppure Almirante andò lo stesso, sen­za scorta, mettendosi in fila come gli altri. Rispose ad un giornalista: «Sono venuto a rendere omaggio ad una persona onesta che cre­deva nei suoi ideali». Quando si sparse la voce, gli andò incontro Giancar­lo Pajetta, che aveva passato i migliori anni della sua vita nelle carceri fasciste: nessuno fiatò o protestò per la sua presen­za, un rispettoso silenzio accompagnò quell’evento straor­dinario per la storia po­litica italiana. Per un attimo l’Italia parve riconciliarsi con se stessa.

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