venerdì, Ottobre 4, 2024
Storie

Quando la giustizia chiudeva gli occhi sui mafiosi

E qualcuno vorrebbe tornare a prima di Falcone e Borsellino…

Così, tanto per dirla facile facile, penso che, in ogni caso, per capire come stanno le cose, bisogna rivolgersi ai fatti, a ciò che è accaduto, a tutto ciò che sta lì, davanti a noi, come maestoso monumento di verità storica, assolutamente incontrovertibile.

Adesso, per esempio, possiamo dimostrare, recuperando alcuni fatti storici troppo facilmente trascurati e dimenticati, che esiste un aspetto formale della giustizia raccolto in codici, in leggi e regolamenti e un suo aspetto sostanziale che è, in genere, necessariamente imposto a tutti, ma che, spesso, non è adeguatamente acquisito e vissuto dai ceti dominanti.

Conseguenza è stata, nel tempo, una sostanziale impunità per i potenti e i prepotenti che, inoltre, hanno gestito in modo funzionale ai loro interessi l’esercizio stesso della giustizia su questa terra di Sicilia cui, naturalmente, mi riferisco.

Poco più di cento anni fa, nel 1874, era arrivato a Palermo il prefetto Malusardi e in poco tempo di briganti e farabutti, di ladri e stupratori in giro non se ne vedevano più, poi il buon Malusardi ritenne di mettere a posto truffatori, ruffiani, corrotti e collusi, ma la cosa non gli riuscì proprio perché il marchese Tommaso Spinola, amministratore dei beni della real casa Savoia glielo impedì perché fu prontamente trasferito ad altro incarico da qualche altra parte.

Anche durante il fascismo al prefetto Cesare Mori fu consentito di arrestare migliaia di campieri e sovrastanti certo mafiosi, di bonificare la Sicilia da ladri e delinquenti, ma anche lui fu rimosso dall’incarico quando tentò di colpire quella zona grigia, mafiosa e collusa col potere che, comunque, lo ringraziò per avere bonificato la Sicilia dalla manovalanza delinquenziale.

Una giustizia forte con i deboli, ma debole con i forti, assolutamente inesistente nei numerosi casi in cui lo Stato ha subìto e permesso il diktat della mafia, abilissima nel costruire e mantenere al suo servizio pezzi sempre più delicati e consistenti delle istituzioni statali.

E così gli esecutori materiali e il mandante, l’on. Raffaele Palizzolo, dell’assassinio di Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, che aveva tentato d’impedire la conquista mafiosa dei soldi del Banco, riuscirono, con l’assenso Giolitti a capovolgere in Cassazione il verdetto di condanna espresso in primo grado.

Bernardino Verro, primo sindaco socialista di Corleone, già animatore dei Fasci dei lavoratori e delle “affittanze collettive”, aveva lasciato due memoriali che spiegano bene come la mafia, nelle persone dei gabelloti danneggiati dalle “affittanze collettive”, sarebbe stata la responsabile di quanto poteva succedergli, che tale Angelo Palazzo, accusato per una truffa ai danni dei contadini, aveva pure solidi motivi per volerlo eliminare.

Il pubblico Ministerro Wancolle non li ritenne veritieri, preferì accettare altre testimonianze, sì da trasformarsi in difensore degli accusati che, naturalmente, furono mandati tutti assolti.

Ai ragazzi che avevano combattuto nelle trincee della prima guerra mondiale lo Stato aveva promesso le terre del latifondo e migliori condizioni di lavoro nelle fabbriche: Nicola Alongi organizzò i contadini e Giovanni Orcel gli operai dei cantieri navali di Palermo, realizzando per la prima volta, qui da noi, in Sicilia, quell’alleanza che Lenin arrivò solo ad auspicare. Furono ammazzati tutti e due, Alongi il 29 febbraio e Orcel il 15 ottobre del 1920. Unico mandante e impunito il boss di Prizzi, don Silvestro “Sisì” Gristina.

E poi, dopo la seconda guerra mondiale, nella delicatissima fase della fondazione della Repubblica, in un contesto internazionale spaccato in due dal muro di Berlino si frantumò da subito, in Sicilia, il sogno di una terra liberata dalla fame e dalla sofferenza.

Ancora una volta la mafia impedì la concessione delle terre ai contadini e l’attuazione dei relativi Decreti Gullo. Decine di contadini, sindacalisti, attivisti politici furono uccisi tra i quali Nicolò Azoti a Baucina (dicembre 1946), Accursio Miraglia a Sciacca (gennaio 1947), Placido Rizzotto a Corleone (marzo 1948), Calogero Cangelosi a Camporeale (aprile 1948), Turi Carnevale a Sciara (maggio 1955).

E ancora una volta mandanti ed assassini andarono tutti assolti per ”insufficienza di prove” e il fatto più grave, la strage di Portella della ginestra, è ancora avvolto nel mistero.

Ci furono boss mafiosi come Vanni Sacco, mandante degli omicidi Cangelosi e Almerico, come Peppino Panzeca mandante dell’omicidio Carnevale che non passarono in carcere neanche una notte.

Negli anni successivi le cose non cambiarono granché: la mafia diventava sempre più padrona, ma si continuava a dire dai comizi e dai pulpiti che essa non esisteva, sicché si dovette lottare per quindici anni (dal 1947 al 1962) per ottenere l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla criminalità organizzata.

Ma ecco tornare, allora, quella giustizia di cui si accennava all’inizio, quella giustizia funzionale ai potenti e ai prepotenti, quella giustizia forte con i deboli e debole con i forti.

Essa s’incarnò in Corrado Carnevale che ritenne di cancellare decine di condanne e centinaia di anni di galera riferendosi, appunto, agli aspetti formali che risultarono decisivi e determinanti per invalidare anni d’indagini, di durio lavoro ed il sacrificio di tanti servitori di questo Stato.

Oggi l’ammazza sentenze ha preso le sembianze di Francesco Iacoviello, Pubblico Ministero (?) in Cassazione nel processo Dell’Utri.

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