Cuffaro, Romano e il pudore perduto
La politica all’asta
In Sicilia le inchieste non fanno più rumore. Nemmeno quando tornano a bussare alla porta dell’ex
presidente Cuffaro, già condannato per favoreggiamento alla mafia e oggi — dieci anni dopo la
scarcerazione — di nuovo sotto inchiesta con richiesta d’arresto. Non fa notizia nemmeno il fatto che con
lui ci sia Saverio Romano, ex ministro, delfino di Totò, oggi deputato nazionale e coordinatore di “Noi
Moderati”, stampella del governo Meloni.
Non fa notizia, perché in Sicilia le cose non si giudicano più col codice, ma con l’amicizia.
E chi ha amici — e favori, e fedeltà — è come se fosse sempre assolto. Il punto, oggi, non è se Cuffaro
finirà di nuovo in carcere. Il punto è che non ci dovrebbe più essere un Cuffaro, da anni, nel dibattito
pubblico. La sua sola presenza è un’offesa all’idea stessa di cosa dovrebbe essere la politica.
Totò Cuffaro rappresenta la proprietarizzazione della cosa pubblica, il potere che non chiede permesso,
che si nutre di fedeltà più che di consenso, che misura la legittimità non nella trasparenza ma nel numero
di parenti, segretari, compari e manager da piazzare. È un sistema. E quel sistema, oggi, è più vivo che
mai.
La censura necessaria non è quella delle manette. È quella della memoria. È l’indignazione politica. È la
vigilanza culturale. Cuffaro non doveva tornare perché non era mai uscito davvero. Aveva promesso il
silenzio, è tornato a distribuire tessere. Aveva detto “basta politica”, è tornato a spartirsi nomine sanitarie.
Aveva parlato di perdono, ha ripreso il comando.
E Romano? Romano è la garanzia che quella scuola politica ha fatto carriera. Assolto per mafia, indagato
per traffico di influenze, poi di nuovo oggi.
Deputato nazionale, ponte tra il vecchio sistema e il nuovo potere. È lui, oggi, uno degli agganci del
centrodestra siciliano a Roma.
Cuffaro e Romano non sono un caso. Sono una struttura di potere. Una struttura che abita gli interstizi
della sanità, dei consorzi, dei partiti civetta, delle commissioni, delle poltrone.
E se anche domani si dissolvesse questa inchiesta, nulla cambierebbe del giudizio che bisognerebbe avere:
ciò che è inaccettabile non è il reato, ma il ritorno.
Non serve aspettare la giustizia penale, basta avere un minimo senso della giustizia politica.
Finché a questa gente si lascerà potere, legittimazione, la Sicilia non avrà mai il diritto di dirsi ferita: sarà
semplicemente complice.

