martedì, Aprile 30, 2024
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Il nuovo giornalismo e il mondo nuovo

I prossimi dieci anni che cominciano ora.

Anche quest’anno, nell’ex Italia, si celebra Falcone. Non solo negli Stati Italiani propriamente detti – Venezie, Patrimonio, Calabrie, Longobardìa – ma anche nella bella Trinacria, a San Marino e a Favignana, dove Falcone tutto sommato ha lasciato un buon ricordo, specialmente in Sicilia dove buona parte della popolazione era sinceramente dispiaciuta dalla sua morte. E’ stato solennemente ribadito che è sbagliato uccidere i magistrati, che la mafia è una montagna di merda e che l’Esempio (dei magistrati) vivrà nel ricordo del popolo siciliano, lombardo e calabrese. Poi tutti sono tornati a casa  (chi ce l’ha) o in galera (se non scarcerati) o dai rispettivi politici, commercialisti e avvocati.

Ora voi dite: abbiamo capito, adesso arriva la solita tiritera contro i mafiosi, i politici complici dei mafiosi, gli im-prenditori ancor più farabutti che da fabbriche e uffici all’estero vogliono ancora da noi i miliardi, e non li vogliono in prestito bensì a fondo perduto. Non sia mai: i colpevoli non sono i mafiosi e men che mai i politici e i prenditori. I colpevoli siamo noi, i cittadini italiani.

Non tutti i cittadini però, ma solo quelli onesti, volenterosi e sinceramente impegnati a sconfiggere una volta per tutte quest’orribile peste del malaffare. Ognuno per conto suo, naturalmente: i milanesi a Milano, i catanzaresi a Catanzaro, i militari nella milizia, i filosofi nelle accademie e negli atenei (se provi, dalla mia negritudine, a chiedere a un giovane rivoluzionario della Bovisa “Parliamo cinque minuti di Falcone”: “Non ho tempo – risponde – debbo già preparare la mia Orazione Maxima Falconiana”.

(I ragazzini, unica gente seria in questi casi, sono stati abilmente neutralizzati con la storia del virus: si chiudono le scuole per qualche giorno, e poi per qualche mese, e poi fino a chissà: ognuno per conto proprio, i ragazzi sono molto meno fastidiosi).

Bene, ma come fa la gente a digerire queste cose? La forza dell’abitudine, naturalmente. Ma l’abitudine, come fai a impiantarla? Eh, ci vuole pazienza. Se per due o tre generazioni abolisci tutti i posti in cui la gente può discutere almeno un poco (sindacati, partiti, parrocchie, circoli, piazze e ogni sorta di cose italiane) a poco a poco a parlare sono sempre di meno, e tutti gli altri stanno a naso in più ad ascoltarli gravemente. Aggiungi i cosiddetti media (i massmidia delle scuole di giornalismo: ormai, chiamiamoli pure noi all’americana), quotidiani e tivvù: di tivvù, tolta quella del governo, ce n’è una sola, quella che Berlusconi mise in piedi, comprandosi tutte le altre, all’inizio – tanti anni – fa. dell’operazione. E i quotidiani?

Quotidiani ormai ce n’è uno solo, La Repubblica del Re, di proprietà della famiglia di Lapo Agnelli, senza più distinzioni fra borbonici e liberali. Per farvi capire rapidamente come stanno le cose basta fare un esempio: il nuovo direttore della Sabaudia, appena impoltronato, appende le corridoio un bel cartello: “Giornalisti! Scrivete cose belle, d’ora in poi, ché ogni settimana il Signor MegaDirettore all’articolo più bello regalerà SEICENTO monete sonanti, soldi veri, subito e senza nè sindacati nè discussioni!”.

“Oh, com’è buono Lei!”, rispondono i giornalisti. Sulla vecchia Olivetti di Giorgio Bocca, adesso a pestare i tasti c’è il valoroso collega Ugo Fantozzi.

Il Regio Giornale (o il suo supplemento-piccoli , l’Huffington) immediatamente dichiara incostituzionali Berlinguer e Pio La Torre: la Costituzione, scrive, che originariamente era, purtroppo e chissà perché, antifascista, adesso è una costituzione borghesissima, anticomunista: in un paese in cui il movimento dei lavoratori era nato contemporaneamente alla nazione, e un terzo dei cittadini vi appartenevano fino all’ultimo pelo forse una dichiarazione un po’ azzardata.

Il “giornalismo” dell’ex Repubblica, tuttavia, è Times e New York Times rispetto a quello  siciliano. Dove il principale quotidiano, la “Sicilia Indipendente” di Catania (la testata nacque proprio così, come organo del movimento indipendentista, il cui “esercito“ ebbe per “colonnello” Salvatore Giuliano) non è mai stato nè fascista nè liberale, ma ha sempre semplicemente appoggiato ogni e qualunque governo. L’editore de “La Sicilia”, indifferente tanto a Gentile quanto a Croce, ha altre simpatie: per lo più la famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano, ma anche occasionali concessioni ad altre cosche palermitane o catanesi. “Che gli hai concesso?” domanderebbe la mamma se si trattasse di una ragazza magari un po’ chiacchierata. E qui le opinioni divergono. Secondo alcuni magistrati i rapporti fra l’editore Ciancio e le cosche mafiose sono proprio, come dire, matrimoniali: affari insieme, coordinamento, concorso nell’associazione mafiosa. Secondo altri giudici, invece, l’estremo dono, l’irreparabile, non vi fu: i rapporti si limitarono a un’amicizia platonica, per quanto stretta e “contigua”. Il che nei codici penali, secondo i giudici più umani, non sarebbe reato.

Se i fantozzi settentrionali hanno dovuto ingoiare, e anzi far mostra di gratitudine, quell’amaro boccone, i loro colleghi siciliani non hanno avuto maggior fortuna: non solo non gli è stato concesso di obiettare alcunché sulle amicizie, platoniche o meno, del signore e padrone: ma hanno anche dovuto firmare pubblici documenti di solidarietà (“Oh, com’è onesto Lei!”), con la firma scritta ben leggibile e letta ad alta voce.

Torniamo – ma in fretta, ché fra poco comincia la commemorazione di Falcone – al discorso iniziale. In che cosa noi gente perbene, ed anzi i più generosi, siamo colpevoli per la disinformazione, per la mafia, per i giornali mercanteggiati, per l’epidemia di servilismo? Perché protestiamo solo ogni anno – non ogni giorno e momento – e perché protestiamo divisi. Protestiamo per rito, per abitudine, senza crederci fino in fondo; i pochi che davvero ci credono riescono per lo più a rendersi impopolari col loro linguaggio incomprensibile e il loro “io so tutto”.

Noi, qui, sappiamo poche cose soltanto, ma quelle poche sono nel nostro mestiere. Sappiamo che un giornale non libero non è un giornale: primo perché è un’ignominia e secondo perché dopo un po’ i lettori, che sono magari ignoranti ma non stupidi, non se lo leggono più. Sappiamo che un giornale moderno è una cosa stranissima, come un foglio non scritto a mano nel medioevo, e che bisogna sforzarsi ogni giorno di adeguarsi professionalmente a questa novità. Sappiamo che una cosa così non si fa da soli, ma bisogna essere in tanti, civili e disciplinati, senza scavalcarsi a vicenda. Sappiamo che si può fare senza padroni, come l’Avvenimenti di Claudio e Miria Fracassi, vincente finchè rimase com’era, come i Siciliani di Giuseppe Fava, giornalista e scrittore ma anche esploratore geniale di una maniera diversa di fare l’azienda-giornale – se di azienda si tratta – già nei primordi del nuovo giornalismo e del mondo nuovo.

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