mercoledì, Maggio 1, 2024
Altri Sud

Kurdistan, genocidio dimenticato

TERZA PARTE

Tra le vittime di una persecuzione senza tempo nell’Iraq devastato dalla furia di Daesh

Foto di Giorgio Barberini

(Suleima/ Una martire kurda/ Incontro con il Pade, il partito ezida/Icontro con il Taje, l’associazione delle donne/ Il museo di Baghdad).

Sinjar vecchia

Le rovine della vecchia Sinjar non sono il frutto del trascorrere del tempo, ma l’effetto della devastazione operata dall’ISIS che nel 2014 è entrato nella regione di Shengal e che nel 2015 ha raso al suolo questa città.

La zona continua ad essere presidiata dalle forze di autodifesa e la loro presenza, che peraltro è ovunque nel Paese, unita al cu­mulo di macerie, dà la sensazione di una guerra che continua.

L’ISIS è stato fortemente sconfitto grazie al coraggio della po­polazione ezida e delle loro unità di resistenza maschili e fem­minili, ma la popolazione ora è sotto l’attacco continuo dei dro­ni turchi, che, entrando nel territorio da un altro stato, quello turco, quasi giornalmente bombardano i loro villaggi.

Un’espulsione di fatto

A venti chilometri dal Campo di Makhmour, siamo stati bloc­cati dalla milizia irachena, ci hanno sequestrato i passaporti, poi ce li hanno restituiti dopo averci accompagnato a Mosul, intimandoci di raggiungere Baghdad per imbarcarci sul primo volo per l’Italia. Una espulsione di fatto alla quale ci siamo op­posti con forza.
Abbiamo incontrato l’ambasciatore italiano nella hall dell’albergo alle tre del mattino e per l’indomani abbiamo ma­nifestato l’intenzione di incontrare l’UNHCR. Senza risultato.

L’UNHCR non ha una sede visibile in Baghdad, né tantomeno un numero telefonico, solo un indirizzo mail al quale ci siamo rivolti. Inutilmente.

I compagni di Makhmour sono stati gentili, ci hanno accompa­gnato fino a Baghdad con lunghe fermate ai posti di blocco e con l’obbligo, imposto dall’intellingence irachena, di segnalare la nostra posizione ogni tre ore inviando una foto collettiva.

Nei giorni seguenti, ci hanno tenuti costantemente informati sull’evoluzione della situazione, fino all’accordo raggiunto con le autorità irachene per il ritiro dei militari che assediavano il Campo di Makhmour.

Il riconoscimento del genocidio subito dal popolo ezida è doveroso e necessario

Il 23 maggio 2023, una delegazione dell’Associazione “Verso il Kurdistan Odv”, ha incontrato, durante un viaggio a scopo umanitario in Iraq, il Consiglio dell’Autonomia che amministra la regione di Shengal (in lingua kurda), Sinjar (in lingua araba), dove la delegazione era stata invitata.

Il confronto si è protratto per oltre cinque ore e si è svolto at­torno ai problemi di una comunità particolarmente colpita dall’ISIS e sul futuro della regione, ma anche sulla necessità di ricordare e di riconoscere, da parte dell’opinione pubblica in­ternazionale, il genocidio subito dall’etnia kurda di religione ezida.

Tra morti e profughi, la popolazione si è ridotta da 500 mila a 250 mila abitanti. Un dramma su cui si erano accesi, per lo spa­zio di un mattino, i riflettori dei media internazionali, poi pron­tamente dimenticato nel tempo della memoria breve.

Troppo breve.

Nel 2014, per contrastare l’offensiva dell’ISIS, nella regione abitata prevalentemente dagli ezidi, un’etnia dalla storia mille­naria, erano presenti 25 mila soldati iracheni e 12 mila pesh­merga, l’organizzazione militare del governo regionale del Kurdistan iracheno.

L’ISIS è arrivato a Shengal con 1.500 uomini: soldati iracheni e peshmerga hanno subito abbandonato il campo, lasciando an­che le armi alle milizie islamiste.
Non avevano alcuna intenzione di difendere la popolazione ezi­da.

Entrato in Shengal, l’ISIS ha compiuto il massacro uccidendo 5 mila persone e sequestrando migliaia di donne e bambini: le donne come schiave del sesso e i bambini da indottrinare e ad­destrare come soldati dell’esercito del califfato.

Sembra una storia di altri tempi, ma è di terribile attualità nella logica della guerra che si abbatte sulle popolazioni civili.

Nel 2014, una parte di coloro che sono riusciti a fuggire, ha cercato riparo sulla montagna di Shengal, che, con le sue grotte invisibili a chi non le conosce, li ha accolti.

Ma, nell’esodo verso la montagna, centinaia di donne, vecchi e bambini, sono morti di fame e di sete.

I sopravvissuti hanno trovato, su quei contrafforti, alcuni mili­tanti delle unità di difesa kurde che erano scesi incontro a loro dai monti Qandil e che hanno respinto i primi tentativi dell’ISIS di addentrarsi sulla montagna, cominciando, allo stes­so tempo, ad addestrare giovani uomini e giovani donne alla re­sistenza armata.

Sono sorte così le YBS/YJS, i primi nuclei di autodifesa ma­schili e femminili della popolazione ezida, che, nel corso dei secoli, aveva subito diversi massacri. La storia racconta di 74 ferman, senza mai riuscire ad organizzarsi attivamente.

Non questa volta, quando hanno liberato la loro terra.

Nella lotta contro l’ISIS sono morti/e seicento combattenti del­le formazioni di autodifesa e mille sono rimasti feriti/e. Ai ca­duti è dedicato il cimitero dei martiri sulla montagna.

Oggi spenga è una città che è stata completamente distrutta, prima dai bombardamenti di terra dell’ISIS, per conquistarla e poi dai bombardamenti aerei della coalizione internazionale per cacciare gli islamisti del califfato. Entrarvi è impressionante: non ci si trova davanti ai segni di una guerra, ma ad una deva­stazione che si presenta come un unico, dirompente scenario di guerra. Nell’idea e nei progetti del Consiglio dell’Autonomia, la ricostruzione non dovrà rimuovere tutte le macerie perché in parte dovranno rimanere a futura memoria.

In questi ultimi anni, la popolazione ezida ha conosciuto un’autentica rivoluzione costruendo una nuova società caratte­rizzata dall’autodeterminazione democratica. Il Consiglio dell’Autonomia è composto da tredici donne e da tredici uomi­ni. Le donne partecipano, per la prima volta da protagoniste, non solo alle formazioni di autodifesa, ma anche e soprattutto alla vita politica e sociale. Colpisce la giovane età di molte di loro. Al momento del dramma collettivo, nove anni fa, ieri e allo stesso tempo un’altra epoca, erano bambine. Con il massa­cro nei loro sguardi che dicono “mai più”.

Il protagonismo delle donne si esprime soprattutto nell’attività culturale, sociale e politica della Fondazione delle donne ezide “Taye”, un movimento aperto a tutte le donne che abitano la re­gione e non solo alle donne ezide.

Tutti/e, il Consiglio dell’Autonomia e le organizzazioni delle donne chiedono insistentemente e intensamente che i parla­menti e i governi – nel nostro caso, il parlamento e il governo italiano – li/le riconoscano come vittime di un genocidio, come ha già fatto l’Onu, dopo il lavoro svolto dalla Commissione istituita dal Consiglio dei Diritti Umani.

Nadia Murad, che ha vissuto sulla propria pelle il sequestro da parte dell’ISIS, è stata insignita del Premio Nobel per la Pace.

Il report “They came to Destroy: ISIS Crimes Against the Ya­zidis” sostiene l’applicabilità dell’articolo 2 per la repressione del Crimine di Genocidio del 1948, di cui anche Siria ed Iraq fanno parte. La condotta delle forze dello “stato islamico” pre­senta infatti una brutale, precisa ratio di sterminio degli ezidi in quanto gruppo etnico: condizione, questa, necessaria per la sus­sunzione della fattispecie genocidiaria. Il report è stato redatto in base alle testimonianze di operatori medici e umanitari, attivisti, giornalisti e soprav­vissuti (Maria Teresa Matulli, Istituto Affari Internazio­nali).

Oltre che dall’Onu, il genocidio è stato finora riconosciuto dal Bundestag tedesco, dalo Parlamento olandese, da quello belga e da quello australiano.

In Italia, il 26 marzo 2019, La Commissione Affari Esteri e Co­munitari della Camera ha approvato una risoluzione, proposta dall’on. Simona Suriano, che impegnava il governo ad assume­re iniziative per sensibilizzare la comunità internazionale e va­lutare le modalità più opportune per riconoscere il genocidio ezida.

Nulla poi è stato fatto.

Si tratta, invece, di un dovere politico, sociale e morale nei loro confronti.

In quel dramma epocale per la popolazione ezida, 5 mila perso­ne sono state uccise, 7 mila sono scomparse dopo il rapimento da parte dell’ISIS, 100 mila sono arrivate in Europaa, 350 mila sono state costrette all’esodo e, in buona parte, si trovano anco­ra nei campi profughi in nord Iraq.

Su una popolazione di 500 mila abitanti.

Se questo non è genocidio!

Ricordarlo non significa soltanto essere vicini alla popolazione ezida, ma anche valorizzare la dignità e la determinazione con le quali sta provando a costruire, a partire dalle macerie delle case, dei corpi e dell’anima, un futuro intensamente condiviso come comunità, in una vera parità di genere e nella forma so­stanziale di una democrazia autenticamente vissuta.

Scendendo verso Baghdad, si incontrano ai ceck-point, sulla corsia opposta, furgoni pieni di povere masserizie con le fami­glie che tornano alle radici, dopo anni di spaesamento nei cam­pi profughi. Andranno a vivere in tende ormai consunte dell’UNHCR e, da lì, proveranno a ricostruire con pochi, es­senziali mattoni grigi, una piccola, essenziale casa in muratura. Tra mille difficoltà, la vita pullula di bambini/e nati dopo il ge­nocidio.

Le altre famiglie sono bloccate nei campi profughi del Kurdi­stan iracheno, dove il governo regionale frappone continui ostacoli al loro rientro, peraltro sotoposte a continui attacchi con droni da parte della Turchia: uno stillicidio quotidiano, con morti e feriti, di cui nessuno parla. Come delle continue viola­zioni dello spazio aereo dell’Iraq. Ma il desiderio di tornare a casa è più forte delle intimidazioni e del terrore seminato dal regime di Recep Erdogan.

In uno dei villaggi della regione, Serdest, l’Associazione Verso il Kurdistan Odv ha finanziato la realizzazione di un presidio sanitario: servirebbero decine dei queste iniziative. Le organiz­zazioni delle donne ezide chiedono di essere sostenute nell’apertura e nella gestione di asili per bambini e di laboratori per l’autonomia economica delle donne. Sono impegnate a li­berare, per riportarle a casa, le donne ezide che si trovano nel grande campo di detenuti di Al – Hol, in Siria, dopo essere sta­te rapite dall’esercito del califfato.

Sanità e scuola sono i presidi essenziali da cui vogliono e pos­sono ripartire le comunità ezide.

La loro determinazione, la loro dignità e la loro voglia di futuro non possono essere lasciate sole.

Ma è fondamentale che venga riconosciuto dal mondo il geno­cidio di cui sono state vittime.

“Associazione verso il Kurdistan”
Per contatti:
Antonio Olivieri tel. 335 75 64 743

 

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