venerdì, Aprile 19, 2024
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Una toga color nero-corvo

Per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana viene condannato un Procuratore generale

 «La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna, vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito, di servitore dello Stato e docente universitario.» 

Con queste parole, scritte prima di suicidarsi il 2 ottobre 2008, Adolfo Parmaliana – cinquantenne professore di chimica dell’Università di Messina – lasciava il suo testamento morale, il suo “j’accuse” nei confronti di alcuni giudici barcellonesi e messinesi «così celeri nel rinviarlo a giudizio – diceva il suo legale e amico Fabio Repici pochi giorni dopo la tragica scomparsa – ma non altrettanto tempestivi» nel dar seguito alle sue pubbliche denunce delle connivenze tra mafia, politica, massoneria e ambienti giudiziari nella zona tirrenica di quella provincia che “babba” ormai non sembra proprio più.

Già, perché Parmaliana non era soltanto uno stimato docente e scienziato. Per tanti anni era stato anche segretario della sezione dei Democratici di sinistra a Terme Vigliatore – dove abitava – e nel 2005, con i suoi esposti sul Piano regolatore, sull’abusivismo edilizio, su certe transazioni fatte dai politici del suo paese, contribuì allo scioglimento per infiltrazione mafiosa del consiglio comunale della stessa Terme Vigliatore.

Quel professore che non scendeva a compromessi finì con l’essere emarginato anche all’interno della sua parte politica. Al suo fianco era rimasto solo l’amico Beppe Lumia, tra i pochi – insieme a Claudio Fava e Sonia Alfano – che ne ha difeso la memoria dopo la scomparsa.

Nel settembre 2009, a quasi un anno dalla morte, una rabbia vendicativa, evidentemente scatenata da quell’ultima, drammatica denuncia, partoriva un dossier anonimo – nel classico stile dei corvi – con cui si cercava di screditare la memoria di Parmaliana, mettendo in dubbio moralità e qualità professionali del professore. Il dossier veniva inviato a numerosi destinatari, tra cui lo stesso senatore Lumia e lo scrittore e giornalista Alfio Caruso, a poche settimane dall’uscita del suo libro Io che da morto vi parlo (Longanesi, novembre 2009), il racconto dettagliato delle battaglie spesso solitarie, delle sconfitte, delle nefandezze compiute ai danni di Parmaliana, fino alla sua morte. Come accerterà in seguito la magistratura di Reggio Calabria, una delle finalità del dossier anonimo era proprio quella di ostacolare la pubblicazione del libro di Caruso.

La famiglia Parmaliana sporge denuncia contro ignoti, evidenziando la circostanza che allo scritto anonimo era stata allegata una sentenza della Cassazione inviata da una cartoleria di Barcellona Pozzo di Gotto alla segreteria personale del procuratore generale di Messina Antonio Franco Cassata, cioè il magistrato sul quale Parmaliana aveva presentato – nel dicembre del 2001 – una nota al Consiglio superiore della magistratura, e che sarà sentito – nel marzo del 2002 – dall’organo di autogoverno dei giudici nell’ambito di un procedimento per incompatibilità ambientale poi archiviato – a cui fa riferimento il memoriale lasciato al fratello prima di suicidarsi.

La Procura di Reggio Calabria avvia le indagini e il 17 novembre 2010 il sostituto procuratore reggino Federico Perrone Capano – accompagnato dal capitano del Ros Leandro Piccoli – si reca negli uffici della Procura generale di Messina per interrogare i cancellieri in servizio in quell’ufficio.

Il Procuratore generale Cassata fu molto ospitale con il suo giovane collega e l’ufficiale dell’Arma tanto da mettere a disposizione il suo ufficio per l’audizione dei testimoni. Durante la verbalizzazione delle dichiarazioni dell’ultima teste, Angelica Rosso, il capitano Piccoli nota in una vetrinetta una carpetta con un’annotazione manoscritta: “copie esposto Parmaliana”; appena più giù, la dicitura, sempre manoscritta, “da spedire”. Perrone Capano allora telefona al suo superiore Giuseppe Pignatone per riferirgli di quanto aveva visto. Pignatone telefona a sua volta a Cassata per spiegargli la necessità di procedere al sequestro.

La carpetta conteneva quattro copie del dossier anonimo – senza il timbro dell’ufficio con il numero di protocollo – e su due di queste erano attaccati due post-it con su scritto “Procura ME” e “Procura Reggio C.”. La Procura di Reggio Calabria iscrive Cassata nel registro degli indagati e, emerse le responsabilità del procuratore generale, lo rinvia a giudizio il 3 dicembre 2011 per diffamazione pluriaggravata in concorso con l’aggravante di aver addebitato alla presunta vittima fatti determinati e di aver agito per motivi abietti di vendetta.

Dopo quasi un anno di udienze – la prima si tenne il 6 febbraio 2012 – il 24 gennaio scorso Cassata è stato condannato: ad un’ammenda di 800 euro – il pm aveva chiesto una condanna a tre mesi – e al risarcimento alla famiglia da stabilire in sede civile, certo. Una sentenza di primo grado e che potrebbe essere ribaltata in appello, certo. Ma comunque una sentenza storica. Il magistrato più potente del distretto giudiziario di Messina degli ultimi decenni è stato condannato. Un altro giudice – pur concedendo all’imputato le attenuanti generiche – ha ritenuto sussistenti a suo carico le circostanze aggravanti dei “motivi abietti di vendetta” rispetto a quell’ultima lettera lasciata da Adolfo Parmaliana. Il sabato successivo – 26 gennaio – si è tenuta a Messina la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario con una sedia vuota, quella di Cassata − unico procuratore generale in carica con una condanna sulle spalle –, sulla cui trentennale carriera di ombre mai chiarite è forse calato il sipario. 

SCHEDA 

Il magistrato Antonio Franco Cassata

Antonio Franco Cassata – originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), dove gode di rilevante influenza sociale – è entrato in magistratura trentotto anni fa. Dagli inizi come pretore di Avola fino all’incarico di giudice istruttore al Tribunale di Patti e poi, nel 1985, l’approdo alla prima sezione penale del Tribunale di Messina, nel 1989 Cassata ha raggiunto la Procura Generale, dove ha prestato servizio con funzioni di sostituto fino alla nomina a Procuratore generale il 29 luglio 2008 al posto di Ennio D’Amico.

Il suo nome compare nell’informativa dei carabinieri Tsunami del 2005: il magistrato sarebbe intervenuto più volte per bloccare le indagini dell’Arma, ed è stato al centro di diverse interrogazioni parlamentari presentate dal senatore Lumia e dall’onorevole Di Pietro per via delle sue discutibili frequentazioni, anche all’interno del circolo barcellonese Corda Fratres, (l’associazione della quale hanno fatto parte anche Pino Gullotti, boss della famiglia mafiosa barcellonese e l’enigmatico Saro Cattafi – ritenuto dagli inquirenti esponente di vertice dello stesso sodalizio criminale) e quindi per l’«incompatibilità» e l’«inopportunità» della sua nomina Procuratore generale.

Già nove anni fa il Csm aveva archiviato una procedura di incompatibilità ambientale nei confronti di Cassata, ritenendo insussistente l’accusa di frequentazioni con personaggi mafiosi che gli era stata rivolta in alcuni esposti. Cassata ha sempre risposto alle accuse dicendo che gli organismi disciplinari «hanno ritenuto del tutto doveroso e irreprensibile» il suo comportamento, ribadendo, riguardo alla sua appartenenza alla Corda Fratres, di non aver mai frequentato il Cattafi.

Il 7 febbraio la Prima Commissione del Csm ha chiuso la procedura per incompatibilità che aveva avviato a suo carico, con il deposito degli atti e adesso dovrà decidere se chiedere al plenum il trasferimento del magistrato o l’archiviazione. L’iniziativa sarebbe legata a un presunto ”interessamento” del Pg a un’indagine su truffe assicurative a carico del figlio Nello, da parte della procura di Barcellona Pozzo di Gotto. Resta ancora aperto un altro filone che riguarda l’eventuale incompatibilità ambientale di Cassata con il figlio, che esercita la professione di avvocato nello stesso ambito giudiziario del padre.

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