venerdì, Marzo 29, 2024
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Non più Casa Badalamenti, ma Casa Nove Maggio

Cinisi: il vento è cambiato, Peppino ha vinto

Ho cercato di seguire la vicenda degli studenti di Moncalieri a colloquio con il sindaco di Cinisi nella casa che fu della buona, anzi della cattiva, anima di don Tano e mi è sembrata una di quelle vicende pirandelliane, al limite tra l’assurdo, il surreale, la stupidità, il pregiudizio. L’episodio è una di quelle “Cronache da Mafiopoli”, da me recentemente pubblicate con l’editore Navarra, nel libro su Peppino Impastato “Era di Passaggio”. Ma forse sarebbe più semplice dire che si tratta di un classico esempio di strumentalizzazione, o meglio, di cattiva utilizzazione di alcune frasi uscite liberamente dalla bocca del sindaco di Cinisi, che fondamentalmente è un bravo ragazzo, impulsivo e spontaneo. Da una parte abbiamo tre componenti: Libera, i docenti e gli alunni. Dall’altra Giangiacomo Palazzolo, “custode” pro tempore della casa che fu di don Tano e alla quale ho tentato, senza fortuna, di dare il nome di “Casa Nove Maggio”, in ricordo del giorno in cui fu ucciso Peppino Impastato e per non chiamarla più “casa Badalamenti”. E quindi per tentare di rimuovere il nome di Badalamenti: sono colpevole anche io e tutti quelli del Forum Sociale Antimafia che tale proposta avevano accettato.

Non conosco bene i fatti, al di là della parziale ricostruzione fatta da “Repubblica” e ripresa, tale e quale, da altri giornali. Ne viene fuori che Libera, tramite una sua guida, ha accompagnato questi ragazzi in un percorso di impegno civile in Sicilia, si presume a pagamento, programmando una tappa a Cinisi, che questa guida non sapeva che nella casa del boss c’era installato l’allarme, o, se lo sapeva, se l’è scordato, e che questo si è messo a suonare. Singolare la spiegazione data dalla guida di Libera, secondo la quale lo scatto dell’allarme sarebbe stato causato “da un disguido dovuto al mancato intervento del Comune”. Forse la ragazza non sapeva che, una volta che si entra in una casa dove c’è l’allarme, l’allarme si mette a suonare e ne ha dato la colpa al Comune, che lo aveva fatto installare. A questo punto il gruppo è andato in Comune per chiedere come disinnescare l’allarme e così ha incontrato il sindaco. A quanto pare non è la prima volta che scatta l’allarme, e questo dovrebbe dare alla cosa una prima chiave di lettura: un sindaco che vede interrotto il suo lavoro, può anche arrabbiarsi e dire delle frasi che, secondo i prof. della scuola, erano uno sproloquio. “Dipendesse da me la casa di Badalamenti la abbatterei”. È chiaro che il sindaco non può abbattere un bene che ormai è acquisito dal patrimonio immobiliare del comune, eppure non credevamo ai nostri occhi quando abbiamo letto una frase, sempre sulla “Repubblica”, di un certo Miceli Carmelo, segretario provinciale del Partito Democratico di Palermo: “Non permetteremo di abbattere la casa di Tano Badalamenti”. Grandi risate, poiché Miceli promette di non far fare una cosa che già non si può fare. E di lì lunghi discorsi, sia del preside della scuola di Moncalieri Gianni Oliva, sia di Miceli, per dire che la memoria va conservata conservando la casa di don Tano, affinché tutti possano ricordarsi di questo truce mafioso: “La memoria è fondamentale e per superare una vicenda come quella bisogna conservare il ricordo e affrontare la questione perché sennò non si risolverà mai”. Meno male che c’è il preside che dice come fare per superare la vicenda, e cioè conservando il ricordo del luogo in cui si decidevano i delitti più efferati degli anni Sessanta e Settanta.

Per fortuna gli abitanti di Cinisi hanno da tempo superato questi problemi, anzi non se li sono mai posti. Badalamenti e Peppino continuano a stare ognuno nella loro casa, anche se la casa di Badalamenti non appartiene più a lui. Ognuno al suo posto, tutto a posto. La posizione dei difensori di questo “monumento” della legalità sembra ricordare quella della “religione dell’umanità” di Augusto Comte, il quale proponeva la costruzione di statue dei criminali da fustigare pubblicamente, affinché la gente si ricordasse dei mali che avevano fatto. Secondo un’estensione di questa teoria, tutti gli studenti che vanno a visitare la casa di don Tano dovrebbero sputare dappertutto, sui pavimenti, sui muri e urlare in coro “La mafia è una montagna di merda”. Bello, ma poco igienico.

L’impressione è quella che si sia voluto creare una bufera e montare un caso sul nulla, probabilmente a causa della grande distanza che divide il modo di vedere di chi sta a Moncalieri e di chi invece sta a Cinisi e alcuni problemi non li vede, ma li vive.
Il sindaco Palazzolo ha ricordato a qualche giornalista in cerca di scoop che egli, giovanissimo avvocato, nel 1998 ha rappresentato con patrocinio gratuito il Comune di Cinisi nel processo contro Badalamenti, per l’omicidio di Impastato. Che i Badalamenti proprio non gli piacciono e preferirebbe cancellarne la memoria, non è una novità: già due anni fa, dal balcone della Casa Memoria aveva annunciato che era sua intenzione cancellare l’intestazione di via “Salvatore Badalamenti”, fratello di Gaetano, ucciso dai nazifascisti in un conflitto a fuoco assieme ad altri quattro presunti partigiani. Allora tutti, compresa l’ANPI di Palermo, si schierarono contro questa decisione sostenendo che Badalamenti era un partigiano “morto per la libertà” e che il nome della via non andava toccato. Anche tutto il paese si è schierato con i “partigiani” di Salvatore Badalamenti, “nel rispetto della verità storica”, e alla fine il nome della strada è rimasto al suo posto. Che Salvatore Badalamenti possa aver preso coscienza, durante il servizio militare, di quello che era il nazifascismo e abbia deciso di ribellarsi schierandosi con i partigiani, è una bella storia su cui si potrebbe fare un film per sostenere, magari, che prima di Peppino Impastato, nella stessa casa di Badalamenti c’era stato un familiare che si era ribellato alla mafia di casa, era partito per il fronte, ma poi si era dato alla macchia e aveva dato la sua vita per la patria. Cosa del resto sostenuta da Gaetano Badalamenti al processo Impastato. Rimangono forti dubbi sia sulla qualifica di partigiano attribuita a Badalamenti e sull’opportunità politica di avere bloccato l’iniziativa del sindaco. Ma questa è un’altra delle tante “cronache di Mafiopoli”.

Il problema non è di ricordarsi di un mafioso per odiarlo, ma di rendere noto che in quel posto   ̶   come ha detto nel 2011 Pietro Grasso   ̶  ha vinto lo stato, che il sito  ̶   posto sotto sequestro il quattro aprile del 1985 dai giudici Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello  ̶   è stato confiscato e affidato ai compagni di Peppino e a suo fratello nel 2011, che al piano di sopra, se il sindaco si decide, avrà posto la biblioteca comunale e che quello che era il centro della violenza è diventato e diventerà ancora il centro della cultura e della legalità. E infine che, per più di dieci anni, tutta la casa è stata la sede del Forum Sociale Antimafia e il centro propulsivo delle iniziative condotte nel nome di Peppino. Per tutto il resto la memoria da portare avanti e da rispettare è quella di Peppino Impastato e la casa da visitare con attenzione è la sua: se poi si vuole provare un’emozione più forte, basta recarsi al casolare in cui fu ucciso che, malgrado le condizioni di ricovero di mucche in cui è lasciato e malgrado la sua condizione permanente di proprietà privata, (perché tutti, da Crocetta a Renzi, a Orlando, sono venuti a promettere senza far niente), si può accedere spostando il cancello realizzato con tre pezzi di legno tenuti da un fil di ferro.

Un episodio: in un pomeriggio del marzo 2012 si era diffusa la notizia che Vito Badalamenti, uno dei latitanti più ricercati d’Italia, condannato a sei anni per associazione mafiosa, era stato assolto e poteva liberamente tornare in Italia. I suoi legali avevano ottenuto la prescrizione appellandosi a una norma che prevede la libertà per il latitante che riesce a non finire in galera per un tempo doppio rispetto a quello della condanna. Trascorsi dodici anni di latitanza il reato è stato prescritto e Vituzzu sarebbe potuto rientrare in Italia quando voleva, senza alcun conto da regolare con la giustizia. Tutti preoccupati del fatto che la sua casa natale non era più sua e che egli avrebbe potuto tentare di tornarne in possesso o di cacciarne gli occupanti con minacce. In quell’occasione ho detto e scritto che, nella mia qualità di Presidente dell’Associazione Impastato, e quindi di detentore delle chiavi di Casa Nove Maggio, avrei potuto concedere una visita qualora Vito avesse avuto voglia di ritrovare i suoi ricordi d’infanzia: ma non più di tanto. Allora mi capitava molto spesso di affacciarmi dal balcone che fu del boss e di agitare con la mano le chiavi della casa, per dire a quei “cinisara” che ancora oggi vivono nel “ricordo” di don Tano, che il vento è cambiato e che è tempo di lasciarsi alle spalle la scia di sangue e di violenze del passato, per guardare avanti. Cosa che altri hanno fatto o stanno facendo. Ed è in questo che Peppino ha vinto. E tuttavia, sino a quando quella casa continuerà a essere chiamata Casa Badalamenti, don Tano ci sarà comunque, per cui reitero la proposta di chiamarla Casa Nove Maggio, da me gridata nel comizio conclusivo del 9 maggio 2012 e la giro al sindaco.

Non più Casa Badalamenti, ma Casa Nove Maggio

 

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