giovedì, Aprile 25, 2024
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Matilde, Acquaviva e la delocalizzazione

Anche in provincia di Catania è arrivata la nuova economia. Significa lavorare senza diritti – in un call center, in questo caso – e poi all’improvviso vedersi “delocalizzati” perché i proprietari vogliono risparmiare ancora. A volte – come qui a Misterbianco – i lavoratori rispondono con la lotta

Matilde ha ventisei anni, studia Economia e le mancano poche materie alla laurea.

“Ho trovato per caso l’offerta di lavoro in un call center, ormai si trovano da tutte le parti. Avevo bisogno di un’entrata che mi garantisse un minimo di autonomia economica dai miei genitori nell’attesa di completare gli studi. Lavoro 6 ore al giorno, con gli straordinari pagati la metà come prevede l’ultimo contratto nazionale, guadagnando massimo 500 euro al mese. Somma che non mi permette di realizzare i miei progetti, comprare una macchina, pensare ad una casa…”.

Questo lavoro per lei, come per moltissimi altri, è l’unica opportunità per rimanere ancora a Catania, il solo modo per allontanare l’idea di emigrare.

“Sono stata assunta con un contratto di somministrazione a tre mesi, rinnovato due volte. Poi nel 2011 sono stata stabilizzata a tempo indeterminato grazie ad alcune sovvenzioni regionali. Credevo che quell’assunzione mi avrebbe garantito un minimo di serenità in più. Alcuni di noi ci hanno sperato veramente, hanno acquistato case, acceso mutui. Ricordo ancora le parole del nostro direttore, quando dopo la firma del contratto ci disse che adesso ci saremmo potuti sposare tutti quanti. Io però in fondo non mi sentivo pienamente garantita. Il contratto sarà pure stato a tempo indeterminato ma sapevo che era proprio il lavoro a essere instabile.”

I call center forse sono il “lavoro” che rappresenta meglio gli sconvolgimenti sociali e produttivi del Paese. Un lavoro stressante, scandito da ritmi frenetici, il più delle volte mal retribuito e con pochissime prospettive di carriera (il regista Paolo Virzì lo descrive in “Tutta la vita davanti”.

In un’economia reale strozzata dalla recessione economica, dove le imprese falliscono e di lavoro ce n’è poco, i call centers spesso sono gli unici posti di lavoro disponibili. Anche in provincia di Catania il fenomeno si rivela una delle più consistenti opportunità lavorative.

A Misterbianco, in particolare, ci sono decine di società piccole e grandi che operano nel settore: come Almaviva, multinazionale con sedi sparse in Italia, Brasile, Cina e Tunisia. Nello stabilimento etneo lavorano circa 3000 dipendenti, 1.300 dei quali a tempo indeterminato.

Dagli anni novanta in poi, l’espansione dei call center è andata di pari passo con la flessibilizzazione del mercato del lavoro, dalla riforma Treu alla legge Biagi, fino alle ultime misure adottate del ministro Fornero. Sempre allo scopo di “elasticizzare” il mercato del lavoro ma con l’effetto, viceversa, di determinare la moltiplicazione dei contratti “atipici”, diversi fra loro ma accomunati tutti dall’instabilità temporale e da tutele ridotte e a volte del tutto inesistenti, a causa di una legislazione mancante e frastagliata.

Chi lavora in questo settore viene assunto nella stragrande maggioranza dei casi con contratti a termine di pochi mesi, a volte anche uno solo, nella speranza poi di un successivo rinnovo e magari di una stabilizzazione. Ma gli oneri legati all’assunzione senza termine sono alti, e le imprese preferiscono non rinnovare i contratti, dotandosi di organici strutturalmente composti da lavoratori precari. Trattandosi di mansioni che richiedono principalmente solo doti di spigliatezza e comunicatività, le aziende hanno gioco facile nel ricambiare periodicamente il personale, perchè in un mese (durata del tirocinio, ovviamente non retribuito) è possibile “addestrarne” altro per ricambiare quello in “uscita” che altrimenti – come dice la legge – dovrebbe essere stabilizzato.

Così le imprese possono attingere a un mercato del lavoro in condizioni drammatiche, in una corsa al ribasso sempre più forte a causa della disoccupazione altissima. I costi del personale calano, ma i profitti restano gli stessi.

Ma anche il ramo delle telecomunicazioni ora sta entrando in crisi: i costi debbono essere ridotti ancor di più. E questo si fa alla maniera globale, cioè delocalizzando nei paesi in cui costi del lavoro sono inferiori.


“A inizio marzo – dice ancora Matilde – abbiamo ricevuto una lettera dal presidente di Almaviva spa nella quale ci veniva comunicato che Vodafone stava mettendo in atto un piano di delocalizzazione dei suoi servizi verso i paesi dell’est Europa, che avrebbe causato un esubero di circa 650 dipendenti su Misterbianco. Per molti è stato un dramma, alcuni non sapevano davvero cosa fare. Immagina che a un mio collega sta per nascere un figlio. E’ stato bello vedere però tutti uniti, immediatamente è scattata una macchina della solidarietà che ha coinvolto anche quelli in cui posto di lavoro non era in pericolo. ”

In poche ore su tutti i social network e sui media locali scoppia il caso. La perdita di quei posti di lavoro è un dramma sociale di enormi proporzioni, che si aggiunge alle altre emorragie di lavoro della provincia. I dipendenti si mobilitano sin da subito, anche quelli che non verrebbero coinvolti dalla riduzione di personale. Si organizzano sit-in, nasce un gruppo su facebook per organizzare insieme le iniziative. I lavoratori rispondono uniti.

Dopo qualche giorno a Roma si riunisce un tavolo tra sindacati, Almaviva e Vodafone, e alla fine si arriva a un compromesso: gli esuberi saranno divisi tra Misterbianco e Napoli (altra sede della società); in più, “ammortizzatori sociali” come contratti di solidarietà e cassaintegrazione a rotazione.

“Il problema sembra essere momentaneamente risolto, perlomeno così ci dicono i nostri rappresentanti sindacali – spiega Matilde – ma con questa notizia ci sentiamo ancora più precari di prima, per certi versi pensiamo che l’agonia sia stata solo posticipata. Io sono sicura solo del fatto che se perdo questo posto dovrò necessariamente andarmene da Catania. Sappiamo che non è finita e sabato 6 aprile abbiamo convocato un sit in dove protesteremo contro la delocalizzazione e contro il fatto che manca un’adeguata copertura legislativa; inizieremo anche una raccolta firme”. 

La storia di Matilde è quella di una qualunque persona giovane nel mercato occupazionale italiano del post-Duemila. Il paradosso di una generazione: obbligati a percorsi lavorativi incerti perchè il mercato non riesce ad offrire di meglio, con la flessibilità ad ogni costo come ideologia ufficiale; e in pericolo di veder svanire le già precarie aspettative a causa della delocalizzazione. Un lavoratore in Albania, Romania, Bulgaria, d’altronde, costa dieci volte meno di uno italiano. Una rincorsa al ribasso sempre più forte che genera una nuova lotta tra poveri tra i lavoratori dei paesi che compongono i diversi Sud di questa Europa.

La precarietà è un aspetto fondante dei rapporti produttivi attuali. E’ la loro vera novità rispetto aprima, e influire pesantemente sul rapporto ineguale fra capitale e lavoro. E quando tali assetti sembrano diventati “normali”, entrando profondamente nelle trame dei rapporti produttivi dei singoli territori, la delocalizzazione arriva come una mannaia a ricordare la totale assenza di regole di un libero mercato sempre più feroce.

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