mercoledì, Aprile 24, 2024
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Lo sguardo di Shadi

Scene di vita quotidia­na da un angolo del pia­neta Terra 

Shadi Alanzen, ventidue anni, cittadi­no di Gaza, ha un sogno: raccontare al mondo la vita a Gaza, i ragazzini, i bambini, la so­pravvivenza quotidiana dopo la violenza che la sua terra ha su­bito questa estate. Shadi vuol racconta­re con i suoi occhi e suoi scatti la resi­stenza del suo popolo. 

Il suo sogno è lo stesso dei ragazzi della sua età. E’ la resistenza civile sua e dei pa­lestinesi giovani come lui, che ha quello stesso strumento non violento: una mac­china fotografica.

Shadi ci aveva mandato delle foto alcuni mesi fa. Poi, subito dopo era andato a fo­tografare Jabalia, un territorio a nord del mare. Lì, mentre fotografa l’esercito israe­liano viene colpito da gas emesso in una normale giornata di repressione.

Niente di che, sembrava, una normale infiammazione che normalmente si poteva rivolvere con una convalescenza di un paio di giorni. Tre, quattro, un paio di set­timane: ma sono ottanta giorni che é mala­to e non ci vede bene, e non sa che gas hanno usato su di lui. Alcuni volontari lo avevano portano all’ ospedale, per una pri­ma cura, poi é stato dimesso.

Le macerie recenti 

Qualche set­timana dopo era già in viaggio, cercando di attraversare il valico che porta all’Egitto e da lì oganizzarsi.

Ma dal valico di Rafah non si può passa­re, e Shadi torna indietro. Cammina a pie­di per una cinquantina di chilometri fino ad arrivare a casa sua. E nel frattempo l’infiammazione ad uno dei suoi occhi co­mincia a diventare un incidente che cam­birà la sua vita.

Passano così questi ottanta giorni, e Shadi fa i primi due interventi al centro of­talmico dell’ospedale di Gaza. I medici gli fanno presente che dovrà farne almeno al­tri sei, di questi piccoli interventi, ma mancano perfino i medicinali piú basici: forse sarebbe meglio spostarsi in un altro ospedale.

Shadi comincia così a chiedere aiuto: “C’è qualcuno che può farmi curare, fuori dal mio paese, con una situazione trauma­tica come la mia? Potrei avere un permes­so una volta aperto anche per un solo gior­no il valico per Rafah”.

Nel frattempo la vita a Gaza trascorre con una infelice quotidianità, e i bambini che lui vorrebbe filmare per un documen­tario vivono la normalità delle macerie. Ci sono macerie strutturali, come le scuole e gli ospedali fatiscenti o le case con le pa­reti aperte, e ce ne sono altre recenti, ferite nuove, profonde e laceranti. E resistenza e depressione, voglia di vivere e desiderio di resa viaggiano attraverso le immagini che lui ha voluto fotografare. 

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