giovedì, Aprile 25, 2024
CulturaEconomiaEditorialiInchiesteTecnologia

Il triangolo del lavoro

Nello stabilimento di Napoli si fanno tutti i pezzi della lavatrice – motori, con­trappesi, cablaggi – e poi si assemblano.

Alla catena di montaggio, tra un pezzo e l’altro, c’è ancora il tempo per leggere tre righe dell’Unità o di avvantaggiarsi qualche minuto, accelerando il ritmo, per fumarsi una sigaretta in pace (era ancora permesso in reparto). «C’era meno stress, ma le condizioni di lavoro erano pessime. Alcuni reparti sembravano il Vietnam, si saldava a mano, partivano scintille da tutte le parti, in verniciatura la gente spruzzava a mano, lo stesso in smalteria. Riuscimmo a far venire le ispezioni della medicina del lavoro. L’azienda venne condannata. Alcuni re­parti furono smantellati, altri moderniz­zati».

I reparti sono misti, con tante giovani donne a lavorare. L’azienda le prende minorenni e le adibisce ai collegamenti elettrici, un lavoro di fino, adatto a mani piccole e svelte. È una grande novità. «Anche se io ero molto chiuso all’inizio – dice Guarino –, non avevo ancora ac­quisito quella mentalità industriale, quel saper parlare alla gente che considero uno degli strumenti fondamentali del sin­dacato». Sua moglie la conosce in fabbri­ca, nel reparto montaggio. Nativa di Tri­poli, madre siciliana e padre veronese, tornata in Italia ancora bambina.

«Ebbero la casa a Barra, nel rione detto dei profughi. Da sposati andammo ad abitare là anche noi, in affitto. Lei si li­cenziò al secondo figlio. All’epoca si po­teva ancora vivere con un solo stipendio».

Nel frattempo Luciano è tornato a scuola. In fabbrica c’è un solo turno, dal­le sei alle quattordici. Quando esce va di­rettamente al corso serale dell’Augusto Righi, uno dei primi del genere, dove ri­trova operai dell’Italsider e della Sofer di Pozzuoli. Si diploma in elettronica nel ’75. L’azienda fa il suo nome per un po­sto al controllo qualità. Dalla catena si sposta in laboratorio, a verificare l’effi­cienza dei pezzi finiti; più tardi passerà in progettazione, diventando uno specia­lista del ramo elettrico. Lo stesso anno diventa delegato sindacale degli impiega­ti.

La fabbrica degli anni Settanta è parte integrante di un territorio in fermento, una miriade di fabbriche piccole e grandi dove lavorano migliaia di persone. C’è la zona del pastaio, quella delle concerie, la Snia Viscosa, la Gentile, fabbrica metal­lurgica, la Mecfond, l’Ansaldo, la Cirio, c’è il settore chimico-petrolifero e quello del vetro.

«Una piccola azienda di grafica – rac­conta Guarino – venne occupata dagli operai. La sera prima la polizia li fece sgomberare, allora la mattina uscimmo tutti dallo stabilimento e li aiutammo a rioccupare. Ci fu una carica, alcuni arre­sti e feriti. Tre giorni dopo venne procla­mato lo sciopero generale in tutta la zona industriale, una grande manifestazione sul corso San Giovanni…».

Negli stessi anni però la fabbrica co­mincia a cambiare: certi pezzi conviene farli produrre altrove, ci sono aziende che ne fanno a milioni con costi molto più bassi. Via i contrappesi. Via anche la fonderia che faceva le calotte in ghisa. Restano i cablaggi, con i fili che vengono da fuori e si assemblano dentro.

Si passa da milleduecento a novecento addetti, con il rituale corollario di sciope­ri e agitazioni. Si profila addirittura la chiusura per l’alta conflittualità dello sta­bilimento. Poi Borghi venderà agli olan­desi della Philips e negli anni Novanta arriveranno gli americani della Whirpool, con annesse rivoluzioni tecnologiche e riduzioni d’organico.

Quando Luciano va in pensione, nel 2009, sono rimasti in settecento. Qualche anno prima, in fabbrica è entrata sua fi­glia. I due maschi invece, lavorano uno alla progettazione di macchine robotiche in un’azienda di Caserta, e l’altro, da poco laureato in legge, come vigile del fuoco a Salerno.

La Whirlpool è diventata una fabbrica di assemblaggio, all’interno restano l’ufficio progettazione e l’ufficio acqui­sti. Dopo tanti anni di lavoro, il pensio­namento rischia di essere vissuto come uno shock. Luciano però non smette di frequentare la fabbrica. Non libera la scrivania.

«La mattina, anche se non arrivavo in orario, mi facevo vedere». E con la scusa di svuotare la stanza, dà una mano ai più giovani. E rende quel passaggio meno traumatico.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *