giovedì, Aprile 25, 2024
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“C’è un altro mondo, fatto di cose belle…”

Vent’anni… due decen­ni, dalla tragica scom­parsa di Rita Atria. Nel ’92 a Paler­mo su uno striscione c’era scritto: “Non li avete uccisi, le loro idee cammineran­no sulle nostre gambe”. Allora si può partire banalmente da una domanda: “le loro idee hanno camminato sulle nostre gambe”?

Rita Atria è la settima vittima della strage di via D’Amelio; una vittima uc­cisa per effetto di quella strage e che spes­so viene ricordata come una morte per “disperazione”, per “solitudine”. Certo, Rita era disperata ed era sola ma perché era disperata? E chi l’aveva lasciata da sola?

Era disperata perché avevano ucciso il suo giudice e quindi la speranza di rima­nere in vita; chi l’aveva lasciata sola?

La sua famiglia (sua madre e sua sorel­la); il suo paese, Partanna; lo Stato. Trop­po co­modo annoverare Rita Atria tra le vittime di mafia. No, Rita è vittima di ma­fia ma è anche vittima di quel sistema su cui la mafia poggia i suoi pilastri; Rita è vitti­ma di una società che giudica e accu­sa chi te­stimonia. “Poverina parlava per sentito dire”, “poverina si uccisa per di­sperazione”, “poverina aveva solo 17 anni”. Una pietà stracolma di ipocrisia, una pietà sen­za religione.

La tomba di Rita Atria non ha ancora un nome e a Partanna la cosa si giustifica semplicemente dicendo che “è usanza del Paese seppellire i morti senza nome”; ve­rissimo. Molti morti non hanno il nome… ma quello di don Vito, il padre di Rita, la signora Atria lo ha messo sulla tomba. Giovanna Cannova Atria madre di Rita, una donna che non ha mai tra­sformato il suo dolore in sentimento di riscatto, il cui rancore le ha fatto distrug­gere la lapide della figlia quando era an­cora seppellita con il figlio Nicola.

Non ha distrutto quel­la lapide per fare un tor­to alla figlia, ha di­strutto quella lapi­de perché a scegliere il luogo della tumu­lazione non era stata lei; ha distrutto quel­la lapide perché la foto­grafia e la frase che ricordava sua figlia non l’aveva scelta lei.

Giovanna Cannova c’era al funerale po­stumo del 1997 (perché nel ’92 pare non ci fossero le condizioni per un fune­rale normale ma solo per una benedizio­ne ve­loce) organizzato dalle associazioni (“Rita Atria”, Libera, l’Arci, etc…), se­duta nella navata laterale della chiesa quasi a voler sottolineare che lei era lì per sua figlia ma non stava con noi.

Non ho mai capito cosa ha spinto la mamma di Rita ad anda­re verso il giudice Capon­netto, alla fine della messa, per ab­bracciarlo quindi preci­pitare in un pianto a dirotto. Forse non siamo noi a dover dare una risposta a tutto questo.

Venti anni senza un nome sulla tomba e con un paese che difficilmente ricorda Rita perché forse è il simbolo di una rottur­a con la cultura mafiosa che impone il silenzio, la complicità e la connivenza. Rita per molti ha solo diffamato Partan­na.

Ma Rita viveva in quel paese e sape­va be­nissimo che “l’unico sistema per elimin­are la mafia è rendere coscienti i ra­gazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trat­tato per ciò che sei, non per­ché sei figlio di questa o di quella perso­na, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore.”.

Rita ci ha tracciato la strada non solo per lottare contro la mafia ma ci ha detto che lei, figlia e sorella di mafiosi, quando ha conosciuto un’altra realtà ha deciso con forza da che parte stare. Schierarsi senza se e senza ma, senza cerchiobbotti­smi, senza compromessi che mortificano l’esistenza.

Rita era una ragazza come tante, voleva vivere, voleva amare, vole­va giocare, vo­leva andare al mare, voleva tornare a Par­tanna. Non è stata solo la ma­fia ad impe­dire tutto questo. Le complicit­à sociali e politiche sono correspon­sabili di quel volo dal settimo piano di viale Amelia a Roma.

Per vent’anni abbiamo cercato di orga­nizzare iniziative nelle scuole, attività sul paese in nome di Rita ma forse, era sem­brato una forzatura, la scelta di chi fonda una associazione dedicata a Rita Atria a milazzo, a più di 300 km di distanza. Sen­za vivere il territorio.

Da qualche anno ab­biamo deciso di non tornare più a Partan­na perché siamo rima­sti in attesa di un se­gnale, di nuove ener­gie che non avessero paura di citare quel nome, di ri­cordarne la storia senza chia­marla “pove­rina” ma di valutare le sue de­nunce, di ri­leggerle almeno in chiave poli­tica visto che gli aspetti giudiziari sono stati defini­ti in un modo o nell’altro.

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