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22 ottobre 2009, la storia di Stefano Cucchi, “morto di ingiustizia”

Dopo le storie di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino e Sorin Calin, il 22 ottobre ricorre l’anniversario (il quarto) di un’altra vittima divenuta tale mentre era nelle mani dello Stato. È la storia di Stefano Cucchi, il geometra romano che, dopo una settimana di custodia cautelare per possesso di 21 grammi di hashish e farmaci antipilettici (l’epilessia era una malattia di cui il giovane soffriva), muore all’ospedale Sandro Pertini, nella capitale.

La notizia, alla famiglia, viene data attraverso la notifica della richiesta di autopsia e da quel momento in poi sarà una costante lotta contro le istituzioni. Lo sarà perché tutto sembra tranne che Stefano sia morto di fame, come si finirà per sostenere. Il suo corpo, infatti, fotografato dai parenti, presenta evidenti lividi, fratture e ferite al volto e in altre parti, come le gambe, l’addome e il torace. Ma molteplici saranno le cause di morte tirate in ballo: oltre alla malnutrizione, si parlerà di droga, problemi precedenti all’arresto, rifiuto delle cure.

È una battaglia che sembra destinata rimbalzare su muri di gomma, quella della famiglia Cucchi, al cui fianco si schiera, come in altre vicende del genere, un pool di legali di cui fa parta l’avvocato ferrarese Fabio Anselmo. Sulle lesioni si cerca di minimizzare, dopo che diventa impossibile negarle. Ma gli agenti di polizia penitenziaria che finiscono a processo sono assolti. In primo grado, la sentenza dice che il ragazzo è morto per mancate cure (pene sospese per i medici condannati), dopo aver peregrinato da Regina Coeli all’ospedale del carcere, poi di nuovo in cella e infine nel nosocomio in cui muore.

Per la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, invece il giovane è morto di ingiustizia. E nei successivi gradi di giudizio si cercherà di dimostrarlo.

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